lunedì, Novembre 18, 2024

Gli otto punti del Vangelo secondo Ortensio da Spinetoli

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

“Quello che conta è riuscire a capire fino in fondo e a realizzare nella vita di ogni giorno la grande consegna lasciata da Gesù Cristo ai suoi seguaci, la possibilità di amare gli altri come li ha amati lui. Allora il divino ha preso dimora sulla terra.”

Il Cristo che aspettiamo è quello dei vangeli, certamente, ma non dei frontespizi o delle prime pagine, bensì dei ripieghi delle medesime, al punto che, se non si sta attenti, si rischia di non scorgerlo.

1 . Il vero volto di Gesù, i suoi tratti autentici non sono stati cancellati, né dimenticati, solo che agli evangelisti sono apparsi troppo comuni per sentirsi obbligati a ricordarli, mentre hanno sentito il dovere di riscoprire e mettere in chiaro i titoli onorifici, presenti nella tradizione profetica e applicati con una certa ingegnosità o ingenuità esegetica al Cristo, se non altro per attenuare lo smacco della croce che copriva di ignominia l’inviato di Dio (Dt 21,239). Una tendenza panegiristica che prenderà sempre più spazio nel corso dei secoli. L’11 dicembre infatti la Chiesa celebra la festa del Cristo-re, una titolatura non solo fuori posto, ma all’opposto di quanto Gesù ha pensato e cercato di essere; un appellativo che non rientrava nelle sue aspirazioni (Gv 6,15) e meno ancora nelle sue programmazioni (Mc 10,41-45).

2. Le istantanee più genuine sulla figura di Gesù sono rimaste nel vangelo di Marco. Qui egli appare con tutta la sua umanità: si commuove (1,41), si adira (3,5), si “entusiasma” fino ad apparire quasi «fuori di sé» (3,21), si indigna (10,14), si effonde sui piccoli, li stringe a sé e dà sicuramente loro qualche bacio (9,36; 10,11), come guarda con simpatia («lo amò») il giovane che gli si è inginocchiato davanti e gli chiede cosa fare per ottenere la vita eterna (10,21). Gesti spontanei, comuni, ma che per Matteo e Luca non si debbono riferire; si vede che le tendenze o tentazioni idealizzatrici erano già in corso.

3. L’apostolo Paolo, che pure si è provato a interrogarsi sulla morte di croce di Gesù, avvicinandola liberamente a quella del capro espiatorio, a proposito delle sue origini non ha saputo altro che era «un nato di donna, un suddito» della legge (Gv 4,4). Un uomo in tutto e per tutto. Una notizia che Gesù sembra confermare quando si dichiara «figlio dell’uomo», una circonlocuzione semitica che equivale a rampollo (quindi “figlio”) della stirpe umana, con tutte le qualifiche e potenzialità, perfezioni, virtù che tale appartenenza comporta, ma anche con i limiti, le carenze, le debolezze, i difetti ad essa connessi. È vero che al tempo delle persecuzioni seleucidiche il profeta Daniele intravvede nella designazione un personaggio che sale fino all’antico dei giorni per ricevere potestà e gloria a pro dei «santi dell’Altissimo» (7,13,27), ma è un’investitura a cui Gesù non ha fatto mai riferimento.

4. La strada di Gesù parte, come quella di tutti i mortali, dal nulla. Certo con tutti gli auspici che accompagnano ogni esistenza, ma non certo con quelle privilegiature sfolgoranti che certi pseudo-narratori (Mt 1-2; Lc 1-2) hanno immaginato o che scrittori più fantasiosi (vangeli apocrifi) hanno supposto. È certo nato “santo” e “innocente”, ma al pari di tutti i suoi simili e come loro si è trovato a crescere, oltre che in età, in virtù e grazia (cfr. Lc 2,52). La virtù è anche un dono, ma nello stesso tempo un impegno coraggioso contro le inclinazioni meno ordinate o addirittura disordinate (orgoglio, vanità, presunzione, neghittosità, pigrizia) che albergano in ogni essere e cercano di sopraffare le tendenze opposte (altruismo, benevolenza, amore). Un confronto o lotta che non si chiude mai, perché la misura o la meta da raggiungere (la perfezione del padre) non ammette stasi.

5. I nazaretani non hanno visto il Verbo Incarnato prendere dimora tra loro (Gv 1,14), ma «il figlio del carpentiere», «il fratello di Giacomo, di Giosuè, di Giuda, di Simone» e di un imprecisato numero di “sorelle”. Uno di loro e uno come loro. In altre parole, un operaio come tanti altri nel villaggio (Mc 6,1-3). E quando in antecedenza questi si era sentito spinto («ispirato») a lasciare la bottega paterna per dedicarsi ad altro (Lc 4,18), si era portato nel sud del Paese dove si sapeva era facile incontrare «asceti» (Giovanni e i suoi discepoli) e «contemplativi» (comunità essene) esperti nelle vie del Signore; ma si vede che i loro discorsi (forse terrificanti) o lo stile di vita troppo appartato non corrispondevano a quello che sentiva nel suo cuore e, invece di rimanere con loro, decide di tornare in Galilea e mettersi a «percorrere» l’intera regione, «insegnando nelle sinagoghe», «predicando» e «guarendo» chi era affetto da infermità (Mt 4,23) e, invece di fermarsi nella borgata in cui era nato o cercarsi un rifugio segreto, va a stabilirsi in un centro di traffico internazionale, a Cafarnao. Se dovrà essere un porta parola dei segreti e dei propositi di Dio, lo sarà alla maniera degli antichi profeti (Elia o Eliseo), andando incontro ai bisogni della gente, non aspettandola in un recinto privilegiato. È quanto suggerirà al giovane aspirante: invece di andarsi a chiudere nelle grotte del deserto di Giuda o isolarsi negli anfratti del Giordano, era meglio mettere i propri averi e la propria persona a disposizione dei bisognosi (Mt 19,21).

6. Il profeta Gesù di Nazareth è straordinario. Se parla di Dio non ripete quello che tutti dicono, che è il Signore, l’onnipotente, il supremo giudice. Tutto al contrario: che è, alla pari di un padre ideale, benevolo, comprensivo, oltre modo misericordioso, pronto a condonare qualsiasi addebito (Mt 18,27), a dimenticare qualsiasi sgarberia (Lc 15,12-24); ma ancor più singolare è che, quasi prima di Dio, perché questi non ha bisogno di nulla e non chiede per sé né tributi di lodi né offerte, rivolge tutte le sue attenzioni agli uomini, certo senza escludere nessuno, nemmeno i prìncipi e i signori del santuario, anche se le sue preferenze vanno ai poveri, ai prigionieri, agli emarginati, agli infelici nel corpo e nello spirito, i peccatori.

7. Il “sogno” di Gesù è quello del predicatore del deserto: che i “colli” siano abbassati e le valli ricolme, cioè che le escrescenze abusive, al pari del misconoscimento dei diritti degli ultimi, presenti nell’alveo comunitario si facciano scomparire e si attui una convivenza tra gli uomini, sulla terra, pari a quella che vige nel mondo («regno») di Dio, dove dominano sovrane l’equità e la pace. Una utopia, certo, ma non perché un tale ideale non può realizzarsi, non trova cioè spazio (topos), ma perché non si fanno avanti i volenterosi, gli uomini e le donne di buona volontà pronti a realizzarlo, anche se questi, Gesù lo garantisce con tutta la sua fermezza (parresia) profetica, “presto” compariranno.

8. La tradizione natalizia, forse istradata dal «prologo giovanneo» che parla del logos venuto ad abitare in mezzo a noi (1,14), ha indotto a pensare o a immaginare che un essere divino si sia «fatto uomo», ma il logos è una parola, non indica una persona; è un’ipotesi, non una ipostasi, ossia una personalità divina, come certi autori dei primi secoli hanno inteso.

Nel vangelo di Matteo, Gesù si autodefinisce semplicemente persona «mite (pays) e umile (tapeinos)» (11,29), cioè piccola e povera, ma nonostante questi suoi limiti egli è riuscito a comportarsi verso i suoi simili con lo stesso grado di bontà, benevolenza, amore che Dio usa con gli esseri umani, buoni o cattivi che siano (Mt 5,48). Può anche essere consolante celebrare la “discesa” di un dio dalle stelle del cielo in una grotta della terra al freddo e al gelo, tra gli uomini, in mezzo ai quali si è da sempre trovato, poiché senza questa sua presenza creativa e caritativa nulla è mai esistito e può mai esistere, mentre in Gesù, nella sua testimonianza, gli uomini hanno appreso un ideale di vita inedito, superiore, divino, che tutti possono far proprio. Non si tratta di diventare «simili a Dio», come fraudolentemente suggeriva il serpente ai progenitori (Gn 3,5), ma di riuscire ad operare come lui, facendo del bene a tutti, anche a chi non lo merita ma ne ha ugualmente bisogno.

Il mistero del Natale non consiste tanto nell’abbassamento di un Dio, quanto nella possibile promozione, elevazione dell’essere umano, di ogni essere umano di buona volontà, fino al rango di Dio. La comunità degli uomini può ritrovarsi famiglia dei figli di Dio (Lc 6,35) e non nominalmente, ma «realmente» (1Gv 3,1).

Il Cristo che deve ancora venire e che i più attendono è alla fine l’“uomo nuovo” che ha preso coscienza della sua ultima “dignità” e cerca di comportarsi conformemente ad essa. Non conta stare ad ammirare estasiati un infante divino che è venuto ad abitare in mezzo a noi (e poi se n’è tornato nel suo mondo lasciando gli esseri umani al freddo e al gelo), ma riuscire a capire fino in fondo e a realizzare nella vita di ogni giorno la grande consegna lasciata da Gesù Cristo ai suoi seguaci, la possibilità di amare gli altri come li ha amati lui. Allora il divino ha preso dimora sulla terra.

Ortensio da Spinetoli

http://www.solidando.net/teologia/testi/ottort.htm

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