domenica, Dicembre 22, 2024

Tradizione ebraica e cristiana della cena del Signore (Daniele Garrone)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Secondo i tre Vangeli sinottici – Matteo, Marco e Luca – Gesù ha pronunciato le parole sul pane e sul calice che sono il fondamento della eucaristia/ cena del Signore delle chiese cristiane durante la cena di Pesach, il memoriale della liberazione di Israele dall’Egitto[1]. Con la distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. sono venuti meno il pellegrinaggio a Gerusalemme e l’immolazione dell’agnello pasquale e la cena è diventata il centro della festa di Pesach.

La cena è un vero pasto, nel corso del quale si fa memoria della liberazione dall’Egitto attraverso alimenti particolari (ad es. le erbe amare che evocano la condizione servile, una composta di frutta che ricorda l’impasto dei mattoni che gli schiavi ebrei erano costretti a fabbricare, ecc.), preghiere, lettura di brani biblici e della tradizione rabbinica, e quattro coppe di vino. Il rituale (seder, ordine, sequenza) è riprodotto in un testo chiamato haggadah[2].

La tradizione cristiana ha avuto innanzitutto la tendenza a non valorizzare il contesto ebraico dell’ultima cena di Gesù, ritenendo che Gesù abbia sì celebrato la Pasqua in conformità alle prescrizioni dell’Antico Testamento, ma che – in quella cena o addirittura una volta conclusa la stessa – abbia istituito un nuovo rito che non si limita a “reinterpretare” o ad innovare la pasqua ebraica, ma la sostituisce.

All’altro estremo vi sono, tra i nostri contemporanei, autori che hanno invece ritenuto di poter ravvisare punti di contatto, tra i racconti dell’ultima cena di Gesù e lo svolgimento della cena pasquale ebraica come la conosciamo dal rituale ancora in uso, così stretti da vedere in questo parallelo il criterio per comprendere gli elementi nuovi introdotti da Gesù, ma anche per sottolineare il radicamento del memoriale da lui istituito non solo nell’Antico Testamento, ma anche nella pietà ebraica[3].

Tre esempi.

1.Il testo che viene pronunciato durante la cena pasquale ebraica inizia con un brano in aramaico che segue la frazione di un pane azzimo:

Questo è il pane dell’afflizione[4] che mangiarono i nostri padri in terra d’Egitto;

chiunque ha fame venga e mangi,

chi ha bisogno venga e faccia Pesach.

Quest’anno [siamo] qui,

l’anno prossimo in terra d’Israele;

quest’anno [siamo] qui schiavi,

l’anno prossimo in terra d’Israele, liberi.

Vi è chi collega direttamente le parole di Gesù sul pane con la liturgia di pesach che noi conosciamo: “Le parole «questo è», che si trovano nei testi evangelici dell’istituzione della Cena, hanno un precedente nella liturgia della Pasqua ebraica.”[5]

2.Le traduzioni correnti di Mc 14,18, Mt 26,20 e Lc 22,14 fanno pensare che Gesù e i suoi discepoli fossero semplicemente “seduti” a tavola, mentre i verbi usati significherebbero lo “stare reclinati, sdraiati”. Questo richiamerebbe un elemento della cena pasquale come la conosciamo oggi. Con un evidente intento didattico che intende adempiere al comandamento di insegnare alle generazioni successive il significato di Pesach (Esodo 12,8), nella haggadah alle parole sul “pane dell’afflizione” segue una domanda: “In che cosa questa sera si differenzia da tutte le altre?” Le prime tre risposte a questa domanda spiegano gesti o cibi peculiari di Pesach. La quarta risposta dice: “tutte le altre sere mangiamo e beviamo stando seduti o reclinati, ma questa sera tutti quanti reclinati”. Secondo J. Jeremias “… questo non è affatto ovvio! Nei pasti comuni, ai tempi di Gesù, come sappiamo dalla letteratura rabbinica, si mangiava stando seduti … è del tutto escluso che Gesù e i suoi discepoli si sdraiassero a tavola nei loro pasti abituali. Come avviene che nell’ultima cena si sdraiano a tavola? Vi è soltanto una risposta: nel banchetto pasquale lo star sdraiati a tavola era, quale simbolo di libertà, un obbligo rituale, anche… per i più poveri in Israele.”[6]

3.Secondo Marco 14,26 (e Matteo 26,30), dopo che Gesù ebbe pronunciato le parole sul pane e sul calice, venne “cantato un inno”. Chi sostiene il parallelo tra i racconti evangelici e la liturgia vede qui un riferimento preciso al canto della seconda parte dello hallel, cioè la sequenza dei Salmi 115-118 che viene recitata quando si beve l’ultima delle quattro coppe della cena pasquale. Così ad esempio non ha dubbi J. Jeremias: “Anche Gesù ha terminato con i suoi discepoli, in accordo col rituale, il convito di pasqua con le due parti dell’hallel … La chiusa del Ps. 118 è stata l’ultima parola di preghiera che egli ha pronunciata prima di intraprendere il cammino verso il Getsemani.”[7]

Le posizioni degli esegeti che leggono il racconto dell’ultima cena sulla filigrana della struttura della cena pasquale ebraica come essa appare nella letteratura rabbinica, in particolare nel trattato Pesachim della Mishnah, e nelle haggadoth che noi conosciamo e che non risalgono oltre il Medio evo sollevano un interrogativo: quale sicurezza abbiamo che la cena pasquale si svolgesse al tempo di Gesù in modo sostanzialmente identico a quello attestato nelle fonti rabbiniche posteriori e nelle haggadoth?

Anche qui due citazioni indicano i poli della problematica. M. Barth ritiene sostanzialmente possibile ricostruire quale fosse all’epoca di Gesù lo svolgimento della cena pasquale ebraica: “Come la celebrazione [di Pesach DG] si è sviluppata in epoca ellenistica e come fosse strutturata, con un incipiente influsso rabbinico, anche al tempo di Gesù, può essere ricavato dal trattato Pesachim della Mishnah.”[8]

L’insigne studioso di giudaistica Günter Stemberger, conclude il suo saggio su “Haggadh di Pesach e resoconti della cena del Nuovo Testamento” con queste parole: “… è chiaro che il trattato Pesachim X o la haggadah di Pesach non possono essere utilizzati come retroterra per la comprensione dei racconti della cena. Si dovrebbe piuttosto tentare la strada opposta, cioè utilizzare il Nuovo Testamento come fonte per il primitivo sviluppo del seder pasquale; però i testi potrebbero essere troppo poco fruttuosi.”[9]

Lo stesso Stemberger, però, appena tratta la conclusione che ho appena citato, prosegue: “Questa conclusione non deve però trattenere dall’utilizzare concezioni teologiche ebraiche in relazione a Pesach per [cogliere] il profilo di pensiero e di atmosfera dei testi neotestamentari.”

Mi sembra questo un approccio molto fecondo. I testi evangelici sull’ultima cena vengono fatalmente risucchiati in categorie molto posteriori e forse anche estranee al linguaggio biblico e al pensiero ebraico in cui Gesù era radicato. Se non è prudente “proiettare” la haggadah al tempo di Gesù, è però necessario leggere i testi dell’ultima cena non a partire da ciò che su di essi si è successivamente costruito, ma a partire da ciò che di veterotestamentario e di ebraico sta intorno e dentro ad essi. Innanzitutto come antidoto alla tentazione di proiettare nei testi ciò che vorremmo trovarvi.

Daniele Garrone


[1] Paolo, in 1 Cor 11,23 parla de “la notte in cui [il Signore Gesù] fu tradito”.

[2] Ad esempio all’indirizzo http://www.torah.it/aggada%202004.pdf (ultimo accesso 8 ottobre 2020 ore 19:00)

[3] Segnalo in particolare, perché accessibili in italiano: Joachim Jeremias, Le parole dell’ultima cena, Paideia, Brescia 1973, il testo “classico” dell’accostamento tra racconti evangelici della cena del Signore e la liturgia pasquale ebraica; Markus Barth, Riscopriamo la cena del Signore, Claudiana, Torino 1990, che presenta in forma ridotta le conclusioni di un suo più ampio lavoro, Das Mahl des Herrn. Gemeinschaft mit Israel, mit Christus und unter den Gästen, Neukirchener Verlag, Neukirchen-Vluyn 1987.

[4] Viene ripresa qui in aramaico la definizione dei pani azzimi che si trova in Deuteronomio 16,3.

[5] M. Barth, Riscopriamo, 21.

[6] J. Jeremias, Le parole, 51-53

[7] J. Jeremias, Le parole, 325.

[8] M. Barth, Das Mahl, 22.

[9] Günter Stemberger, Pesachhaggada und Abendmahlsberichte des Neuen Testaments, Kairos 29(1987), 145-158 = id., Studien zum rabbinischen Judentum, Stuttgarter Biblische Aufsatzbände 10, 357-374 (373).

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