“L’infinito”
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
(G. Leopardi)
La più intensa poesia di Leopardi non può che toccarci nel profondo. Svela lo stupore dell’uomo davanti al mistero dell’infinito e dell’eterno. Due non-misure, che noi uomini e donne, limitati dallo spazio e dal tempo, possiamo soltanto contemplare.
I versi, se li cogliamo nel loro insieme senza la parafrasi che ne paralizza lo slancio, ci mettono direttamente davanti al mistero di dio.
Di certo non il dio delle religioni, il dio antropomorfo delle interpretazioni bibliche, il dio onnipotente giudice occhiuto che per tanto tempo ha dominato le nostre coscienze.
Ma il dio che è stato e sempre sarà, l’essere per il quale e nel quale tutto e tutti vivono e muoiono. Un dio che si manifesta nella natura che evolve e continuamente si crea. Un dio che scopriamo nell’intelligenza delle leggi universali, nella grandezza della nostra conoscenza che sempre più ne penetra i misteri .
Un dio che non fa, ma semplicemente è.
I versi sono in realtà una preghiera così come dovrebbe essere .
Un’immersione, un annegare nell’ immenso e nell’ eterno dell’essere/dio. E dovremmo sentire tutta la dolcezza di questo abbraccio/ naufragio nel quale perdersi e riposarsi dalla fatica del vivere.