giovedì, Novembre 7, 2024

Teologia e coronavirus. Non parlare di Dio, ma discutere con Dio (Elizabeth Green)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Elizabeth Green è un’esperta di teologia femminista. Membro del Coordinamento teologhe italiane, è stata vice presidente dell’ Associazione Europea della Ricerca Teologica delle Donne. Pastora dell’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia, attualmente esercita il suo ministero in Sardegna. Tra le sue pubblicazioni: Il Dio sconfinato. Una teologia per donne e uomini (2007); Cristianesimo e violenza contro le donne (2015); Padre nostro? Dio, genere, genitorialità. Alcune domande (2015), tutte per i tipi della Claudiana. Nel 2019 per le Edizioni San Paolo ha pubblicato, insieme a Cristina Simonelli, Incontri. Memorie e prospettive della teologia femminista.

 

Vuole innanzitutto presentarsi ai nostri lettori?

Sono pastora da più di trent’anni al servizio dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia. Ho sempre unito pensiero teologico e consapevolezza femminista, come si evince dalle mie varie pubblicazioni di cui l’ultima è Un percorso a spirale. Teologia femminista: l’ultimo decennio (Claudiana, 2020).

Da una parte l’aspetto più razionale. La teologia non è una scienza esatta. In un momento in cui vi è una ricerca di certezze e di evidenze scientifiche per spiegare l’epidemia in corso, che tipo di competenze e di conoscenze può offrire un sapere come quello teologico?

La mia riflessione teologica parte dal basso e si esprime anche (e forse soprattutto) nella vita della Chiesa (predicazioni, studio biblico, liturgia ecc.). All’inizio sono rimasta colpita dallo sgomento generale. Non sembrava possibile che “ci capitasse qualcosa” al di fuori della nostra capacità di controllo. Mi riferisco a qualcosa di profondo, l’assoluta incredulità che nel Terzo millennio esistesse ancora l’imprevisto e l’imprevedibile.

Penso che uno dei compiti della teologia è tenere aperta la porta a ciò che eccede il sapere tecnoscientifico. Tuttavia, anche la teologia rischia, nel tentativo di dare senso e ordine, di smussare troppo gli angoli e contenere l’eccesso sebbene la sua “materia” sia l’Eccedente per eccellenza! Da lì l’importanza delle scritture che veicolano risposte plurali, disordinate e talvolta contraddittorie alle domande che poniamo.

Dall’altra parte l’aspetto più irrazionale. Qua e là si afferma che il diffondersi del virus sia una sorta di punizione divina. Come è possibile smontare simili dichiarazioni?

Non si può negare che l’equazione peccato umano=castigo divino è un filone importante nel pensiero biblico. Presente nei profeti e nel deuteronomista, entra nell’apocalittica trovando anche un piccolo spazio nel discorso di Gesù (Lc 21,11). Usarla oggi significa estrapolarla dal suo contesto storico, geografico e religioso! Quando tale equazione è evocata nell’attuale situazione, il peccato è sempre quello altrui. Infatti, ci si erge a giudice per estraniarsi da una situazione drammatica che minaccia le nostre certezze. È il rischio corso (e denunciato da Gesù) dalle persone religiose in primis le quali ringraziano Dio di non “essere come gli altri uomini”. (Lc 18,11) Secondo le scritture ebraiche creato, creatura umana e Creatore sono connessi.

Dunque, laddove le relazioni tra gli esseri umani siano ingiuste (basti pensare all’accaparramento delle risorse da parte di una piccola parte del mondo, le guerre che ne derivano, la violenza maschile sulle donne), anche la relazione creature-creato va in tilt. Il filo che conduce da questa idea all’equazione peccato=-castigo è sottile e non regge il ponte che qualcuno vorrebbe costruirci sopra. Non solo perché è una forzatura del testo biblico ma perché la lettura del disastro va fatto da chi lo vive in prima persona. Il disagio delle persone chiuse in casa è diverso dai pericoli affrontati dal personale sanitario e dall’ansia e dolore di chi non riesce a respirare. Si può parlare di Dio (teo-logia) solo abitando la sofferenza, facendosene carico. Meglio non parlare di Dio affatto ma discutere con Dio, gridare a Dio, invocarlo in quanto (lo insegna Barth), premessa del teologare e pregare.

Lei cosa pensa significhi il termine “speranza”, e cosa indica?

La speranza è la risposta umana alla creatio ex nihilo divina. Dall’inizio «chiamare all’esistenza le cose che non sono» (Rm 4,17) caratterizza la dinamica divina. La speranza si alimenta dalla parola-promessa da parte di Dio. Sebbene tale parola sia radicata e sostenuta da eventi nel passato (creazione, Esodo, resurrezione) e riguardi il futuro, le sue conseguenze sono già presenti nel presente. Tale dinamica è l’ossatura della fede biblica («Siamo salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede non è speranza; difatti, quello che uno vede perché lo spererebbe ancora?», Rm 8,24). Per l’apostolo Paolo, Abramo è il paradigma del binomio fede-speranza, a me piace pensare a Sara (Eb 11,11), e prendere la promessa del bambino a esempio della speranza che genera. Ci vuole del tempo prima che una gravidanza si renda visibile, e ancora più tempo fino all’“arrivo” del bambino. La speranza unisce la certezza dell’evento con l’incertezza del tempo. È J. Moltmann a riscoprire, dopo Auschwitz e sulla scia di E. Bloch, la speranza come categoria teologica. Radicata in una parola del passato, la speranza è legata al Dio che viene per interrompere il ripetersi ad infinitum del già dato. «Dio è sempre più grande delle nostre timide aspettative», dice una preghiera che amo; «quando intorno a noi un mondo crolla Tu fai sorgere la Tua nuova creazione»; «cammina davanti a noi, Tu che sei il nostro futuro».

Quale deve essere il ruolo dei “pastori” in questa emergenza? In rete si trovano molte proposte. Ma non si rischia di stordire con l’eccesso?

Il punto è: la rete e i social generano un linguaggio adatto ad argomenti complessi e d’importanza esistenziale? A parte le “pillole di speranza” che mi arrivano su whatsapp e ingoio volentieri, temo che in rete si rischi di trovare risposte superficiali a domande profonde. Perciò penso che oltre a tenere insieme un gregge tutt’altro che virtuale, è importante coadiuvare il discernimento. Di fatto, nelle Chiese evangeliche il/la pastore/a accompagna e facilita il rapporto con Dio sia delle singole persone sia della comunità. Il protestantesimo ha sempre incoraggiato pratiche personali di pietà come la lettura biblica, la preghiera quotidiane, il culto domestico e speriamo che possano dare frutto in questo tempo.

Esiste una specificità femminile di cura pastorale della sofferenza che ci sta attraversando?

La domanda sul genere presuppone un maschile e femminile forse intesi l’uno in opposizione (o complementare) all’altro. Poiché sono l’unica figura pastorale di Chiese appartenenti alla FCEI in Sardegna, non ho colleghi coi quali confrontarmi… Posso solo dire che la figura pastorale è di per sé a rischio di ansia di prestazione, presenzialismo e persino deliri di onnipotenza. Io faccio del mio meglio per evitarli e ho scoperto che non negare la vulnerabilità ma permettere che si trapeli, può essere in linea con la creatio ex nihilo, fonte non di debolezza bensì di forza.

 

Giuseppina D’Urso è volontaria de La Tenda di Gionata e del Gruppo Kairòs di Firenze, nonché collaboratrice di Pax Christi Italia  

Giuseppina D’Urso intervista Elizabeth Green, Adista Segni Nuovi n° 13 del 04/04/2020

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