giovedì, Novembre 7, 2024

La pace non è una virtù (A. Zarri)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).
“La pace non è una virtù: è il risultato di parecchie virtù: la frugalità, la mancanza di pretese, la fede, la fiducia, l’abbandono.

 

 

Cerchiamo prima di tutto di sbarazzare il terreno dagli equivoci. La pace non è l’indifferenza,  l’apatia, il quieto vivere. C’è in effetti chi concepisce la pace in questo modo: destreggiarsi il più abilmente possibile, non avere fastidi, aggirare gli spigoli, essere condiscendenti e arrendevoli, magari transigendo i principi, non impegnarsi a fondo, farsi una cuccia calda e ripararla dai venti, vivere in pantofole, come si suol dire. Il risultato di questo studio minuzioso non è la pace: é il quieto vivere senza grane, senza noie, senza disturbi. A ben pensarci è una sorta di morte. La morte non duole, la morte lascia tranquilli. Ma è forse un ideale da proporsi?

 

 

I Padri greci parlavano del vertice della vita interiore come di uno stato di assoluta calma. Al riparo ormai dai turbamenti della vita. Che differenza passa tra questo stato e il quieto vivere di chi non vuole fastidi? La differenza che passa tra la vita e la morte. Quella calma suprema è il risultato del potenziamento vitale di tutte le energie dello spirito e della grazia che si esaltano in una finezza di armonia. Il quieto vivere, invece, è l’assopimento di tutte le istanze vitali e morali che si mette al sicuro dai colpi dell’esistenza. Quella è al di là delle crisi esistenziali, questa è al di qua e cerca di evitarle. Ma evitare le crisi e le difficoltà del vivere, significa rifiutare la vita e restare bambini. Non è l’infanzia del Regno, perché il Signore promette la vita eterna a chi “diventa” bambino, non già a chi resta in un’immaturità che non vuole crescere; promette il Regno a chi riconquista l’infanzia, lo stupore, l’abbandono, la pace dopo le crisi, le tentazioni di pessimismo e di sfiducia che sono il portato normale della vita.

 

 

Quando il Signore nel discorso dell’ultima cena promette la pace ai suoi discepoli precisa che la pace che dà lui, non è la pace che dà il mondo. Perché? Proprio perché la pace che dà il mondo è una scaltra difesa delle ferite della vita, un patteggiamento e un calcolo.

 

 

La pace invece che ci dà il Signore non conosce questa astuzia, non ci ripara, si impegna a fondo della vita, disarmata, disposta a lasciarsi ferire. Il discepolo del Signore non si sottrae a nessun pericolo, a nessuna offesa dell’esistenza e degli uomini. La sua pace è al di là. E’ una pace drammatica, ferita, dolorosa. Le sue radici non sono nella facilità di un’esistenza facile, calcolata, protetta: sono in Dio. Noi sappiamo che Dio ci vede, ci custodisce; che il suo amore è sempre vigile e che nessuna forza del mondo del potrà staccarci da lui. Questa è la pace: sapere che è vicino, che ci ama e che noi possiamo amarlo. Credere che ciò che accade è il suo amore, che ciò che ci ferisce è ancora il suo amore. Fidarsi, fargli credito senza domandare perché, sicuri di lui come dell’amico che non tradisce e non tradirà mai. “Scio cui crededi” dice San Paolo: so a chi mi sono affidato, a chi ho accordato  fiducia. Mi basta. Amen. Questa è la pace.”
(da  A. Zarri, Un eremo non è un guscio di lumaca, Einaudi, 2011, pag. 240)

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