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“L’utopia della sua stella”, Epifania (don Vittorio Mencucci)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

ANNO C, 6 gennaio 2019, EPIFANIA DEL SIGNORE; Is 60,1-6; Sal 71; Ef 3,2-3a.5-6; Mc 2,1-12

La liturgia di questo periodo liturgico ruota attorno al mistero dell’incarnazione: nel natale abbiamo contemplato l’umanità di Cristo, ora nell’epifania scopriamo nella fragilità di quel bambino l’onnipotenza di Dio. Il racconto dei magi ha qualche cosa di irreale e favoloso, ma dobbiamo tener conto che all’evangelista Matteo non interessa l’oggettività storica, la sua preoccupazione è di trasmettere un’idea importante per la sua comunità. Ha di fronte a sé un buon numero di convertiti dal giudaismo che ancora con orgoglio affermano la primogenitura presso Dio e intendono imporre le usanze della propria religione anche ai convertiti dal paganesimo. Matteo continuamente ribadisce che il popolo ebraico ha rotto l’alleanza con Dio per non aver riconosciuto il suo inviato Gesù. Per questo Dio ha tolto la primogenitura a Israele e ha rivolto la sua predilezione verso un nuovo popolo a cui tutti possono appartenere in base alla scelta di mettersi alla sequela di Cristo, senza le imposizioni della legge mosaica. Il cristianesimo si distacca dall’ebraismo come scelta di libertà e di umanesimo universale. È doveroso notare che il senso di oppressione e di chiusura non appartengono all’ebraismo in quanto tale, ma alla sua istituzionalizzazione, che al tempo di Gesù soffoca la vita etica e l’esperienza religiosa in un vuoto formalismo controllato dall’autorità. L’istituzione è indispensabile perché un’idea possa incarnarsi nella storia, ma quando prevarica riduce l’etica a sottomissione, l’anelito verso l’Assoluto a rito e traccia i confini del pensiero entro l’ortodossia, il tutto gestito dall’autorità. Il cristianesimo, che nasce in antitesi alla sclerosi vissuta dall’ebraismo ai tempi di Gesù, oggi prende coscienza di dover ripensare al proprio interno lo stesso problema. Qualunque struttura il cristianesimo usi per vivere nella storia deve essere capace di una continua autocritica, o conversione, in funzione sia della fedeltà alla parola di Dio sempre meglio compresa, sia come risposta ai sempre nuovi problemi che sorgono dalla vita. L’essere fondato più sulla vitalità del messaggio che sulla stabilità delle strutture, permette al cristianesimo di vivere il suo universalismo in maniera nuova più adeguata a una società pluralista. Fino ad ora è stato un universalismo di inclusione: tutti possono entrare, ma fuori non c’è verità. Ora deve riconoscere pari dignità alle altre scelte religiose per cercare valori condivisi e costruire, nella convivenza pacifica, un futuro più umano. Da questa prospettiva si può meglio comprendere la caratterizzazione dei personaggi che Matteo delinea con fine intuito. I sacerdoti conoscono il tempo e il luogo della nascita del messia, ma non si muovono, anzi via via prenderanno una posizione sempre più ostile. I gestori delle istituzioni sacre presumono di aver catturato Dio entro i propri schemi, per cui perde senso, anzi è sovversiva, l’attesa di terra nuova e cieli nuovi. Così il popolo sonnecchia soddisfatto di una rassicurante ritualità che dà l’illusione di propiziarsi l’onnipotenza di Dio, con la stessa logica della bacchetta magica. Non c’è nulla da attendere, nulla da cercare, basta solo obbedire. Erode si mostra interessato al messia, ma nel gioco del suo potere. I magi rappresentano il nuovo popolo universale che viene sin dai confini della terra, sono uomini in ricerca, felici di seguire una stella che brilla. Forse Nietzsche li accuserebbe di fuggire dalla realtà e di nascondere la testa sotto la sabbia delle stelle, in realtà portano la testa alta e seguono quella realtà di cui gli uomini hanno più bisogno: l’utopia. Sono personaggi un po’ irreali, più vicini al sogno, ma Ernst Bloch ci avverte che oltre al sogno notturno che esprime il nostro passato mal digerito e i conseguenti incubi, c’è un sogno diurno, fatto ad occhi aperti, che esprime ciò che ci costituisce in maniera più propria, ma ancora non abbiamo raggiunto, la patria che mai abbiamo abitato, per cui la condizione dell’uomo è di essere in cammino, cittadino della storia, straniero in ogni patria: così pensavano i primi cristiani, quando Costantino non aveva ancora elargito il frutto avvelenato del potere e della ricchezza.

 

(don Vittorio Mencucci, Adista Notizie n° 43 del 15/12/2018) 

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