«È un dittatore, ma è il nostro dittatore» si diceva di Gheddafi. Il lavoro sporco, le democrazie, se tali vogliono restare almeno nella forma, lo devono appaltare.
Così, in Turchia, dove Erdogan riceve circa 6 miliardi dall’Europa per la ”gestione dei profughi”. Salvo poi minacciare: «vi manderemo 3 milioni di migranti, se ostacolerà le nostre operazioni» in Kurdistan (dichiarazione del 10 ottobre scorso).
Ma la Libia? La Libia non è diversa eppure, al tempo stesso, lo è. Non c’è un uomo forte al comando (blanda consolazione immorale), ma una serie di bande parastatali e un quasi-Stato che per molti versi ha il profilo di un anti-Stato.
Due i nodi cruciali, drammatici dell’accordo.
Primo,diretto: i campi di detenzione in Libia, finanziati dal nostro Paese, formalmente condanati dall’UE, e al centro di decine di denunce per abusi, maltrattamenti e financo torture.
Secondo, indiretto: le Ong, al di là delle dichiarazioni di facciata, sono una spina nel fianco di tutti i governi: il caso Ocean Viking lo dimostra. Così, per togliere le castgne dal fuoco è intervenuto proprio alla vigilia del rinnovo il (non) Governo Serraj che vuol disporre il sequestro e l’accompagnamento nel porto libico più vicino per le imbarcazioni non preventivamente autorizzate. In sostanza: sarà impossibile operare per le ONG.
Fra tre giorni, l’Italia potrebbe dunque staccare un nuovo assegno da 50 milioni di euro all’anno, aggiungendo denaro ai 328 milioni che dal 2016 l’Europa destina per sostenere il finanziamento dei centri di detenzione.
Un’Europa che formalmente predica le frontiere aperte, ma poi esternalizza il lavoro sporco. Solo che, stavolta, quel lavoro sporco (per l’Ue) lo facciamo noi. Possiamo davvero tollerarlo?