Dagli anni 70 al Rojava. L’Italia ora fa la voce grossa ma quando nel 2016 venne in Italia il capo del partito filo-curdo Hdp, oggi in carcere, non fu ricevuto da nessuno del governo Gentiloni
Il lungo tradimento dei curdi da parte degli americani comincia negli anni Settanta e oggi nel Nord della Siria, il Rojava curdo, si è aperto il capitolo più devastante: il massacro di un popolo e dei princìpi più basilari di giustizia, diritto internazionale e democrazia, l’umiliazione degli Stati uniti, incapaci di fermare il Califfo Erdogan, un’Europa sotto ricatto e la virtuale disarticolazione della Nato – a 70 anni dalla sua fondazione – non a opera di un attore esterno ma di uno stato membro come la Turchia dal 1953.
Erdogan, che in Turchia ha dozzine di basi e missili Nato puntati su Teheran e Mosca, dell’Alleanza si fa beffe. Dopo il golpe fallito del 15 luglio 2016 chiuse Incirlik e fece circondare il quartiere generale Nato di Istanbul: ero lì, davanti ai cancelli, con i militari occidentali consegnati e guardati a vista, ma nessuno disse una parola. Poi non a caso Erdogan ha comprato gli S-400 da Putin. Ricatta tutti, non con machiavellica abilità ma perché sa di affondare il coltello in un ventre molle.
O Erdogan viene fermato militarmente in Rojava, dove sta creando un nuovo stato islamico, e lì colpito, in qualunque maniera, oppure il ricatto proseguirà all’infinito, anche sotto sanzioni o embargo.
È una situazione che abbiamo voluto e agevolato con l’inettitudine dell’Occidente, Italia compresa. Anche aiutare la Turchia democratica, come scrive Michele Serra su Repubblica, suona drammaticamente ironico: a piazza Taksim abbiamo abbandonato nel 2013 la «Turchia democratica». Il governo italiano che adesso fa la voce grossa quando nel 2016 venne in Italia il capo del partito filo-curdo Hdp, Selahettin Demirtas, oggi in carcere, non fu ricevuto da nessun rappresentante del governo Gentiloni per non irritare Ankara.
E l’ambasciatore turco Salim Esenli, appena convocato alla Farnesina, ha dato in escandescenze urlando che: «L’Italia dal terrorismo delle Br non ha imparato nulla, perché i curdi sono terroristi».
Ma ecco come il passato si ripete e come si occulta da anni una versione della storia. Chi l’ha vissuta non dimentica. Nel 1972 lo Shah di Persia sosteneva la resistenza curda contro l’Iraq ma i curdi non si fidavano: temevano che se avesse raggiunto un accordo con l’Iraq sul petrolio e il confine dello Shatt el Arab nel Golfo li avrebbe poi abbandonati. Il leader curdo Mustafa Barzani chiese allora a Reza Palhevi, che si atteggiava a guardiano del Golfo per conto degli Usa, di coinvolgere Washington come garanzia del suo impegno.
Lo Shah ottenne l’intervento di Nixon durante un viaggio a Teheran. La supervisione delle operazioni anti-irachene fu affidata a Henry Kissinger che, come segretario di Stato, rimase al suo posto anche dopo il 1974 quando il repubblicano Nixon fu costretto alle dimissioni dallo scandalo Watergate (le intercettazioni illegali di danni del partito democratico). Il clima politico e il contesto di allora ricordano in qualche modo quello di oggi, con Trump nel mirino dell’impeachment per il Russiagate e l’Ucraina.
Ecco quello che accadde. Nell’ottobre 1973 esplode la guerra dello Yom Kippur tra arabi e israeliani con un attacco a sorpresa egiziano e siriano. I curdi, con l’Iraq impegnato a inviare battaglioni sul fronte, intravedono l’opportunità di attaccare. Ma da Kissinger viene un «no» deciso all’operazione. Oggi sappiamo perché: gli arabi avevano decretato l’embargo petrolifero, con un aumento del 400% dei prezzi del greggio, ma gli americani avevano continuato segretamente a rifornirsi dalla saudita Aramco e non volevano irritare troppo i nemici di Israele in un conflitto che terminò senza esiti risolutivi.
Israele comunque annotò sul taccuino che i curdi potevano essere potenziali alleati contro gli arabi, tanto è vero che un paio di anni fa Netanyahu, alla vigilia del referendum curdo iracheno sull’indipendenza, ha dichiarato che «Israele supporta il legittimo sforzo del popolo curdo nel costruire un proprio Stato».
I curdi allora obbedirono all’ordine di Kissinger ma poco dopo pagarono amaramente la loro fiducia negli americani. Nel 1975 Iraq e Iran raggiunsero l’accordo di Algeri sul confine dello Shhat el Arab e furono abbandonati al loro destino: senza armi, munizioni, rifornimenti e migliaia di profughi, più o meno come avviene in queste ore.
Gli Usa oggi come allora hanno lasciato i curdi senza anti-aerea e rischiano una disfatta epocale dopo avere contributo alla sconfitta dell’Isis. Non è proprio una esclusiva di Kissinger e Trump. Nel 2011 Obama ritira le truppe lasciando l’Iraq senza aviazione: quando nel 2014 l’Isis avanza, l’esercito iracheno si sfalda e dopo avere catturato Mosul sarebbe entrato a Baghdad se non ci fossero state le milizie sciite guidate dal generale iraniano Qassem Soleimani.
Ma oggi nel Rojava, rispetto al Kurdistan iracheno del 1975, c’è una miscela ancora più esplosiva: i turchi metteranno i jihadisti nella «fascia di sicurezza» a fare da antemurale ai curdi. Uno stato islamico protetto dal Califfo Erdogan.
Il lungo tradimento dei curdi da parte degli Usa si prolungò durante la guerra Iran-Iraq quando i curdi iracheni, il 16 marzo 1988, furono attaccati con le armi chimiche dall’esercito iracheno: 5mila morti, in un campagna militare che fece tra i curdi 100mila vittime su un milione di caduti in tutto il conflitto. Ma nessuno condannò mai l’attacco chimico di Halabja e Saddam restò un alleato dell’Occidente e delle monarchie del Golfo fino all’invasione del Kuwait nel ’90. Eppure l’amministrazione Reagan sapeva perfettamente che erano state usate armi chimiche (gas nervino) e da dove provenivano.
Cosa era accaduto ce lo raccontarono allora i superstiti in fuga da Halabja ricoverati negli ospedali iraniani. E il cronista ora è costretto a riaprire di nuovo il taccuino sulle conseguenze di questo ennesimo tradimento occidentale: una bella stretta di mano al Califfo Erdogan alla Casa bianca e tutto sarà finito.