Testimonianza di Anna Battaglia della rete 3volteGenitori, per il progetto “La verità rende liberi” de La Tenda di Gionata
Mio figlio a vent’anni mi fece il dono, attraverso una lettera consegnatami a mano, di dirmi della sua omosessualità con coraggio. Sì con coraggio perché, come mi rivelò tempo dopo in occasione di un’intervista che mi fece per la sua tesi di laurea, “avevo sentito dire di gente che cacciava i figli fuori di casa, di madri che non parlavano più ai figli o che li portavano dall’esorcista. Non sapevo come avresti reagito, anche perché tu sei stata sempre molto cattolica e quindi avevo il timore che tu la prendessi male.”
Il mio essere cattolica lo bloccava. Se era passato questo messaggio allora in che modo incarnavo l’amore, che è il fondamento di ciò che Gesù ci ha trasmesso? Il mio essere cresciuta nella visione dell’accoglienza, invece avrebbe dovuto rassicurarlo. Aveva introiettato tutta la negatività che la società coniuga con l’omosessualità, tutta quella negatività che permea il nostro essere a causa del silenzio imposto da regole civili e religiose.
“La Chiesa mi condanna alla castità, mi dichiara reietto e contro natura, mi condanna all’inferno” così scriveva mio figlio.
Lui soffocava nel senso di colpa, perché chi doveva aprirgli la porta della misericordia, lo richiudeva nelle gabbie del pregiudizio, in presunzioni di colpa. Restavo solo io a dimostrargli tutto l’amore e tutta l’accoglienza che la chiesa e la società gli negavano.
“Ti ricordi cosa mi hai detto, quando hai finito di leggere la mia lettera?”
“Ricordo che ti ho abbracciato e ti ho augurato di essere felice…”
“… e mi hai detto una frase molto bella – Tu per me sei stato un dono di DIO e se Dio ti ha voluto così, per me va bene così – e quella è una cosa che mi ha dato un grande sollievo perché solo in quel momento ho capito che tu saresti stata dalla mia parte, sapevo di avere un dialogo con te e non un muro da abbattere. Ma tu, mamma, come vivi il tuo essere cattolica?”
Io ero dilaniata ma non per la sua omosessualità: dov’era finito tutto il messaggio di amore che impregnava ogni omelia della celebrazione eucaristica, ogni incontro di riconciliazione, ogni dialogo nel gruppo cattolico che frequentavo?
Montava la mia rabbia verso questa Chiesa che nascondeva, copriva, accusava, silenziava. Verso questa Chiesa incoerente. Come restarci ancora a dentro questa Chiesa senza sentirsi dissociata o schizofrenica? Che delusione! Per me non era più madre questa Chiesa, ma matrigna.
Era un muro di gomma tentare di parlare con i sacerdoti che conoscevo: era per loro una malattia, era un peccato.
Così cercai altrove il dialogo, in quegli uomini e in quelle donne di fede, dissidenti, ai margini che mi insegnarono a ripescare dentro di me i motivi profondi del mio credere, al di fuori dai dogmi e delle regole di catechismo.
La diversità affettiva di mio figlio divenne, ed è stata, occasione di crescita mia nella fede, nella relazione con chi noi chiamiamo Dio, per me Padre/Madre, che altri chiamano in altro modo, ma che è l’Amore che permea l’universo e che ciascuno di noi incarna nel veicolare il bene.
Riempie la mia vita e la guida attraverso la Parola incarnata in Gesù, nutre la mia esigenza di relazione, relazione che ogni genitore incarna prima di tutto con le creature che ha generato, che sono degne di essere onorate nella libertà del loro essere.
“Figlio mio, ti ho sempre percepito come un dono di Dio, ancora di più adesso, perché mi hai dato una grandissima opportunità. Si sono aperti nuovi orizzonti, ma anche la mia fede è cresciuta, è maturata ed è diventata una fede adulta”.
29 Ottobre 2019
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