Non vorrei entrare nei singoli aspetti che caratterizzano le polemiche sorte intorno all’Istituto accademico che negli ultimi 40 anni si è occupato, come nessun altro, dei temi del matrimonio e della famiglia. Ne ha fornito una ottima lettura Luciano Moia, sull’Avvenire di oggi, 2 agosto, rispondendo ad una lettera firmata da alcuni professori dell’Istituto. Mi sembra interessante osservare una serie di paradossi, che talvolta segnano la vita della Chiesa e la portano ad una evoluzione inaspettata ma provvidenziale. Tali paradossi riguardano la vita della chiesa in rapporto al ministero dei teologi. Li presento in successione, quasi come aforismi in sequenza.
1. Lo sviluppo di una “teologia del matrimonio e della famiglia” ha subito, nel corso degli ultimi 40 anni, molte forme di pressione: prima fra tutte è stata l’idea, non nuova, di “difendere la famiglia dal nuovo mondo che la modernità stava edificando”. Un pensiero “antimodernistico” sulla famiglia e sul matrimonio riprendeva fiato, dopo essere stato un cavallo di battaglia dal 1880 al 1931, poi fino al Concilio Vaticano II, e poi di nuovo a partire da “Familiaris Consortio”, nel 1981, con la fondazione nello stesso anno dell’Istituto “Giovanni Paolo II”.
2. Questo Istituto ha formato molte centinaia di pastori e di professori, sulla base di una lettura fondamentalistica e integralistica della tradizione matrimoniale e familiare. Salvo rarissime eccezioni, è sempre rimasto all’interno di una lettura “antimoderna” della tradizione, alimentata dai fantasmi della lotta frontale alla cultura liberale e alla “dissoluzione della famiglia” che essa vorrebbe realizzare, in ragione del suo individualismo.
3. Si è sviluppata, così, una cultura accademica cattolica sulla famiglia e sul matrimonio che ha progressivamente assunto la figura di una “ideologia”, incapace di leggere lo sviluppo sociale, culturale, civile se non con i paradigmi ottocenteschi della “illegittimità”, della “incompetenza” e della “minaccia” per la tradizione.
4. Questa cultura accademica ha rigenerato se stessa per due generazioni, arrivando fino al duplice Sinodo sulla famiglia, del 2014 e 2015, al cui interno non ha potuto più esercitare il suo “potere di veto” con cui aveva di fatto paralizzato la riflessione teologica all’interno della ufficialità cattolica, per quasi 40 anni. Ricorrendo spesso ai metodi più per far tacere tutti coloro che volevano continuare a ragionare e non accettavano di ripetere slogan ideologici.
5. Era inevitabile, che dopo i due Sinodi e la pubblicazione di “Amoris Laetitia” i detrattori di questa nuova fase, che vedevano ogni sviluppo come “corruzione”, “perversione” o “errore” fossero costretti alla ritirata. Non avendo argomenti, hanno usato il potere finanziario o la intimidazione per cercare di far valere ancora le loro ideologie.
6. Una intera “teologia di corte” si era creata intorno al matrimonio e alla famiglia. Una teologia che non serviva la Chiesa, ma solo se stessa. Una teologia immobile, bloccata, impaurita dalle nuove forme di vita, preoccupata soltanto di scomunicare ogni espressione di intelligenza della fede che non procedesse in modo rigido, aprioristico e definitorio. E che non creasse sulla “materia familiare” (dalla sessualità alla convivenza) una serie di barriere, di divieti, di blocchi, di ostacoli.
7. Ma la esperienza ecclesiale di matrimonio e di famiglia ha camminato lo stesso, nonostante questi tentativi, spesso goffi e poco intelligenti, di bloccare, di scomunicare, di escludere. La ricca esperienza naturale e civile di relazione, di convivenza, di generazione ha saputo convincere la tradizione ecclesiale migliore che era giunto il momento di uscire dagli stili e dalle modalità con cui il secolo XIX aveva affrontato e risolto le nuove questioni sulla unione e sulla generazione.
8. La ricostruzione della svolta sinodale e papale, presentata avventatamente come un “colpo di mano”, tradisce la natura “cortigiana” della teologia elaborata dall’Istituto lungo la sua storia. Non riesce a riconoscere che si tratta piuttosto della “legittima difesa” con cui la sana tradizione reagisce al colpo di mano imposto a partire dagli anni 80 e che ha reso il pensiero ufficiale della Chiesa su matrimonio e famiglia largamente autoreferenziale e altamente infecondo.
9. La Chiesa non ha bisogno di teologie di corte. Né della corte di Giovanni Paolo II, né di quella di Benedetto XVI, né di quella di Francesco. Al teologo non si addice mai la logica della corte. Anzi, non c’è teologia alcuna finché la forma di vita è quella della corte. La teologia deve essere molto più rispettosa e molto più critica di una corte. Non deve né mormorare di nascosto, né compiacere ostentatamente. Per questo la teologia dell’Istituto è irrimediabilmente tramontata. Non ha onorato la realtà, ma ha idealizzato le cose e le persone, le opere e i giorni. Per questo è diventata non una risorsa ma un problema.
10. Quando una teologia di corte è lasciata libera di imperversare per 40 anni, non è facile ritrovare credibilità. Va detto che l’Istituto non agiva in regime di monopolio: altre istituzioni hanno potuto elaborare un sapere credibile e argomentato sui temi della famiglia. Ma la rilevanza dell’Istituto è stata comunque grande e forte, anche come influsso sul magistero ecclesiale, centrale e locale. Ora si deve correre ai ripari. Creando una nuova generazione di teologi davvero autorevoli, che non cadano in quelle forme di idealizzazione non equilibrata, che sempre genera mostri.