domenica, Dicembre 22, 2024

Joseph Stiglitz: Attenti ai nativisti

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).
«Quella di Donald Trump è più di una tendenza, è un vero e proprio approccio autoritario». Nel suo ufficio al secondo piano della Uris Hall, l’edificio nel campus della Columbia University che ospita la Graduate Business School, Joseph E. Stiglitz (premio Nobel per l’economia nel 2001) allarga le braccia: «Sono ottimista su alcune cose, su altre un po’ più pessimista, ma non ha importanza se e quanto lo sia io. Quello che conta è vedere cosa accadrà nel giro dei prossimi tre o quattro anni, capire se i democratici progressisti d’America saranno in grado di fermare l’attuale presidente. E il primo grande test sono le elezioni di novembre».
A 75 anni d’età, una quindicina di libri che hanno fatto sempre discutere, un occhio molto attento alla globalizzazione e all’Europa (con critica “da sinistra” dell’euro), Stiglitz sta vivendo una seconda giovinezza da quando è considerato quasi un guru dalle nuove leve del “socialismo all’americana” che si è affacciato con rilievo nelle primarie degli ultimi mesi. Tanto che lunedì scorso è stata la star di una serata alla Columbia University, sul palco accanto ad Alexandria Ocasio-Cortez, la ventottenne capofila newyorchese dei democratici socialisti Usa. L’Espresso ha intervistato Stiglitz in occasione dell’uscita in Italia di uno dei suoi ultimi lavori (“Creare una società dell’apprendimento”, Einaudi) affrontando con il premio Nobel i temi centrali di questi mesi: Trump e l’America di oggi, il populismo e il nuovo fascismo, la guerra dei dazi e le diseguaglianze, l’economia digitale e l’intelligenza artificiale.
Cominciamo dagli Stati Uniti, professore. Come sta l’America dopo quasi due anni di Trump?

«Abbiamo un presidente che non crede nella democrazia, che non crede nel ruolo dei media e della stampa, che non crede nella giustizia. Un leader americano che non sa cosa sia il “check and balance”, il principio è la base della nostra democrazia. Donald Trump sta cercando di minare l’intera cornice della nostra società, compreso il ruolo dei servizi segreti. È molto inquietante che circa il 30 per cento degli americani appoggino The Donald e non prestino alcuna attenzione alla sua tendenza autoritaria, che è più di una tendenza, è un vero e proprio approccio autocratico. C’è però anche una buona notizia: il fatto che il 50 per cento dei suoi tentativi non siano andati a buon fine, che non sia riuscito a fare quello che voleva».
Il suo autoritarismo potrebbe avere in sé i germi di un nuovo fascismo?

«Su come sono nati i regimi fascisti c’è molta pubblicistica. Un libro che consiglio è “The Anatomy of Fascism” di Robert O. Paxton, dove si mette in rilievo come i fascismi, nonostante non abbiano probabilmente mai avuto più del 30-35 per cento dei voti, siano riusciti a raggiungere il potere grazie alla complicità dei conservatori e al mondo degli affari. Sono passati circa cento anni, allora grandi e piccoli industriali hanno pensato di poter usare il fascismo per portare avanti la propria agenda economica e politica, ma alla fine furono loro ad essere usati dai fascisti. Oggi, qui negli Stati Uniti, noi stiamo vedendo una cosa per alcuni aspetti simile: la business community sta appoggiando Trump perché vede la sua presidenza come un’opportunità, perché vuole pagare ancora meno tasse, perché pensa di poterlo piegare ai suoi obiettivi. E invece, basti pensare alla guerra dei dazi cui le grandi aziende Usa sono contrarie, non sono affatto in grado di influenzare le decisioni del presidente».
Si parla molto anche di populismo, in questo periodo. E non solo per Trump. Lei che cosa ne pensa?

«Populismo non è una parola che mi piace usare. Nel caso di Trump e anche dei cosiddetti populismi europei, preferisco usare il termine “nativismo’”, che indica bene quanto accade nella politica in Occidente: dare la colpa agli altri di tutti i tuoi problemi, in un quotidiano schierarsi – basti pensare agli immigranti – “noi contro loro”. Ora gli europei nativisti sull’immigrazione se la prendono con l’Unione europea, che è un modo troppo facile per scaricare i propri problemi sugli outsider, su chi arriva da fuori, una forma di ostracismo che ha qualche germe di fascismo. Che vuole minare il progetto europeo e l’idea stessa di Europa. E lo dico io che non sono certo tenero con la Ue e con l’euro».
Appunto. Ci può spiegare il senso della sua critica alla moneta unica?

«La diversità dell’Europa è la sua forza, ma per l’euro funzionare in un continente che ha grandi diversità economiche e politiche non è facile. La moneta unica comporta un tasso di interesse fisso, il che significa che i diversi paesi non possono gestire la propria valuta in base alle proprie esigenze. Avete bisogno di una varietà di istituzioni che aiutino le nazioni per le quali alcune politiche non sono adatte. L’Europa ha introdotto l’euro senza fornire tali strutture. E ora quei popoli si rivoltano contro».
Tornando agli Stati Uniti, cosa pensa dell’evoluzione e dei cambiamenti in corso tra i democratici?

«Oggi i democratici hanno imparato molto sulle lacune della nostra democrazia, hanno capito l’importanza dell’inclusione. E la “progressive left” credo sia maggioranza dell’elettorato».
Alle primarie hanno avuto successo i candidati (e soprattutto le candidate) che si definiscono “socialisti”…

«La cosa più interessante è che il termine “socialista” non ha oggi assolutamente nulla a che vedere con l’eredità della Guerra fredda. Queste candidate sono quasi tutte giovani, ventenni, trentenni. La Guerra fredda è finita ormai da 30 anni, loro non hanno alcuna memoria di cosa è stata. Per loro “socialismo” significa qualcosa di totalmente differente dal marxismo, significa una società che lavora per la società stessa, per tutti. Vuol dire che la gente deve lavorare assieme per risolvere i problemi, contestano l’establishment del partito democratico perché ritengono che oggi occorrano radicali cambiamenti affinché la società funzioni in modo più egualitario, cercano nuovi modelli. Vogliono ripensare le relazioni sociali in America: questo è il “socialismo” di oggi. Comunque le prossime elezioni saranno decisive».
Lei sorride all’idea di Trump che difende gli interessi dell’America meno abbiente, di quella classe media che secondo la vulgata comune lo ha portato alla Casa Bianca.

«La gente guarda solo l’immediato futuro, vede che la disoccupazione diminuisce, che Wall Street macina record, gli raccontano che sono state tagliate le tasse. A breve termine la riforma fiscale di Trump funziona, serve a stimolare l’economia, ma gli americani non vedono la big picture , quello che ci sarà dopo, nel giro di qualche anno. Quando la riforma fiscale sarà a regime il prodotto lordo degli Stati Uniti diminuirà, come pure i salari. Oggi stiamo vivendo quella che in economia è chiamata sugar high , ma riguarda i profitti delle imprese non i consumatori, i cittadini comuni. E il rischio di una nuova crisi è sempre dietro l’angolo».
Una prossima crisi? È possibile in tempi brevi?

«Quello che so per certo è che non abbiamo risolto il problema che ha portato alla crisi di dieci anni fa. La domanda è: abbiamo fatto abbastanza per evitare un’altra crisi? La mia risposta è no. È difficile ipotizzare quando ci sarà un’altra crisi, quello che assolutamente si deve evitare è la mancanza di trasparenza, una delle cause principali della crisi del 2008. Su questo sono stati fatti solo leggeri passi avanti, che non sono sufficienti».
Il suo libro ora pubblicato in Italia riguarda la società dell’apprendimento.

«Le due cose su cui ho imperniato il libro sono ancora più rilevanti di tre o quattro anni fa. In questo momento gli Stati Uniti sono impegnati nella guerra dei dazi, vale a dire in una guerra tipica della vecchia economia. Si tratta di acciaio, di carbone, di automobili. La nuova economia, quella di oggi, riguarda invece l’innovazione e una delle principali tesi del mio libro è proprio questa: la ricchezza di una nazione dipende dall’innovazione e dalla capacità di apprendimento della società stessa. Questa è una cosa molto semplice che Trump non capisce, lui sta tornando indietro di 150 anni, di un secolo. Allora quella era innovazione, il carbone, le auto, l’acciaio, oggi l’economia è molto diversa. Con la casa Bianca di Trump è accaduto, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, un fatto grave: abbiamo il presidente che impone più tasse e più tagli alla ricerca, all’innovazione. Che penalizza chi oggi affronta le nuove sfide tecnologiche. Quello che sta facendo è esattamente l’opposto del creare una “società dell’apprendimento”, che è da sempre la chiave del successo dell’economia americana. La seconda cosa che oggi enfatizzerei ancora di più è quando parlo del fatto che l’innovazione è speso associata con il potere dei monopoli. E il potere dei monopoli negli Stati Uniti e nei paesi occidentali è cresciuto negli ultimi anni in modo abnorme, pensiamo a Facebook, a Google, ai giganti dell’economia digitale. La posizione di forza di queste società nello sfruttare i big data è veramente eccessiva ed è una della cause dello sfruttamento dei consumatori che indebolisce l’efficienza dell’economia. Trump non capisce una cosa fondamentale: che il nostro vantaggio competitivo, quello che dà la forza dell’economia americana, è la conoscenza».
Lei aveva previsto i danni della globalizzazione, con le nazioni ricche che hanno inglobato le economie emergenti senza rendersi conto di quanto questo avrebbero danneggiato la protezione sociale in Occidente. Oggi si dice molto preoccupato dalla diseguaglianza in America. Ha una ricetta?
«Farei esattamente l’opposto di quanto fa Trump, perché quando noi impariamo ad essere più efficienti, nel produrre automobili o per avere un’energia migliore, tutto il mondo ne trae beneficio. Il problema di Trump è che lui vede il mondo come un posto da sfruttare, una economia a somma zero per un mondo a somma zero. Il mondo dell’innovazione e del commercio è invece a somma positiva. Quello che mi spaventa in questi suoi tentativi, in questa guerra delle tariffe che ha scatenato, è il fatto ripugnante che su acciaio e carbone lui alla fine farà del male proprio a quelli che in teoria vuole aiutare. Ferirà il suo elettorato e non aiuterà gli altri, tra l’altro sfidando le leggi internazionali e violando anche qualche legge degli Stati Uniti. Chi vorrà mai più fare un accordo con chi cambia o non rispetta le regole del gioco? L’America intera verrà considerata come non affidabile. Il 2008 ci ha dimostrato come non ci si poteva fidare delle grandi istituzioni finanziarie. La fiducia è la vera grande questione di oggi».
Come in politica, così in economia c’è però anche l’altra America. Quella che guarda al futuro, all’innovazione tecnologica…

«L’Intelligenza Artificiale è il futuro del mondo, ma può anche essere pericolosa. È in grado di migliorare enormemente la vita, pensiamo alla medicina, alle auto che guideranno da sole, ma quello che dobbiamo sapere è che con l’intelligenza artificiale andiamo verso un mondo sempre più diviso. Che si perderanno molti posti di lavoro. E sarà molto importante che i giganti del digitale, che la controllano, siano adeguatamente regolati».
(Alberto Flores D’Arcais, L’Espresso, 03.10.2018)

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