lunedì, Novembre 18, 2024

Venezuela, i 30 giorni nei quali Juan Guaidó non è andato da nessuna parte

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Escludendo l’intervento militare in Venezuela, la riunione del gruppo di Lima (il consesso dei governi latinoamericani di destra, riuniti ieri a Bogotá) ha chiuso nella sostanza la parabola del tentativo di Juan Guaidó come presidente autoproclamato del Venezuela e allo stesso tempo evitato la regionalizzazione della crisi. Proviamo a mettere insieme elementi di analisi sugli ultimi 30 giorni e in particolare sull’ultimo lungo fine settimana al confine tra Colombia e Venezuela.

La guerra si allontana dai Caraibi?

Partiamo dalla fine, da Bogotá e dal cosiddetto Gruppo di Lima, creato solo nel 2017 dagli USA come istanza multilaterale per risolvere la crisi venezuelana, e che, solo a gennaio, per riconoscere Guaidó aveva registrato la defezione di un pezzo da novanta come il Messico di Andrés Manuel López Obrador, messosi alla testa della linea del dialogo con Maduro. Pur con l’augusta presidenza del vice di Trump, Mike Pence, alla quale quasi tutti i convenuti riconoscono ben più di una primogenitura, dimostrando anche plasticamente come l’America latina sia tornata subalterna a Washington, questa volta tutto è andato male per il giovane capo (forse) dell’opposizione venezuelana. Salta infatti all’occhio che questa volta la riunione è stata appena per vice-presidenti, ma soprattutto che il Perú prima, il Brasile soprattutto, abbiano escluso la soluzione militare alla crisi sulla quale ancora poche ore prima batteva la grancassa mediatica.

Del Brasile diremo di più subito sotto. Perché i latinoamericani siano riottosi sull’intervento militare è presto detto: ne hanno paura e hanno paura di opinione pubbliche nelle quali il discorso integrazionista non si è mai spento. Una guerra civile in Venezuela rischia di creare un movimento enorme e armato, brigate internazionali in difesa del Venezuela. Aprire le porte agli USA e magari trovarsi una guerra civile ai confini per anni è totalmente fuori scala rispetto al beneficio presunto di liberarsi di Maduro. Inoltre il congelamento dei crediti venezuelani, sui quali si basa l’indurimento dell’embargo sul quale ha ripiegato Pence, sarebbe per tutti i governi della regione un precedente da evitare. Nello stesso modo potrebbero infatti comportarsi i “fondi avvoltoio” domani e ottenere così il pagamento di rate in scadenza dei rispettivi debiti esteri. Solo Bogotà si è detta disposta, ma nella storia non si è mai visto un presidente colombiano dire no a Washington.

Brasile vs USA? Sempre l’Amazzonia nella mira

Non sono sfuggite ai più avvertiti tra gli osservatori le parole di Pence, che hanno indicato nella Colombia l’alleato più importante nella regione. Più fedele, sarebbe meglio dire, rispetto al Brasile. Il vicepresidente brasiliano, il generale Hamilton Mourão, che secondo vari analisti è già oggi molto più potente di Bolsonaro, applica infatti la stessa agenda geopolitica della dittatura, dove il controllo e la difesa dell’Amazzonia sono architrave, tenendo fuori gli Stati Uniti, allontanando il narcostato colombiano e controllando la frontiera venezuelana.

A Bogotá Mourão è stato durissimo con Maduro, ma ha allo stesso tempo escluso le misure estreme volute da Pence. Il gruppo nazionalista al quale fa capo Mourão è quello dei militari che comandarono la missione militare ad Haiti, la Minustah, compreso Eduardo Villas Bôas, ex-capo delle forze armate e ideologo del mondo visto da Brasilia. A oggi i militari brasiliani possono accettare interventi in Venezuela all’unica condizione di essere loro a condurre il gioco, escludendo sia i colombiani che gli statunitensi. Non è un caso che Pence nella riunione del gruppo di Lima abbia indicato nella Colombia il principale alleato degli USA: le relazioni tra le due principali potenze continentali, e in Sudamerica i brasiliani si considerano al di sopra degli USA, sono già oggi ai ferri corti: totale sintonia ideologica, competizione strategica.

In questo contesto è più facile capire Guaidó che, con voce sempre più flebile, pregava di non escludere alcuna opzione, cioè la guerra. Checché se ne pensi, ancora una volta è dimostrato che gli Stati Uniti non hanno il potere di imporre guerre tra stati al Sud America. Regime change forse, ma le guerre è altro affare e senza Brasile non si può. La riunione del gruppo di Lima è del resto giunta dopo una significativa polemica durata per giorni (completamente censurata dai media in italiano) e che ha visto come protagonisti lo stesso Pence e il ministro degli esteri spagnolo Josep Borrell. Se per gli europei il dettato costituzionale venezuelano, che avrebbe imposto a Guaidó il convocare elezioni entro trenta giorni resta fondamentale, e quindi il riconoscimento è sempre stato solo come “presidente a interim”. Per gli USA e per il biondo vice di Trump, le elezioni sono solo un dettaglio marginale e Guaidó è invece “presidente legittimo” del Venezuela, nonostante non abbia alcun potere reale.

Presidente a interim o presidente legittimo?

Nonostante la mano di Pence posata sulla spalla, Guaidó, per restare al centro di giochi molto più grandi di lui, aveva invece bisogno di una accelerazione della crisi che non c’è stata. Il ritorno al dialogo, lo rende insignificante, uno tra i tanti leader della litigiosa opposizione venezuelana, tuttora più preoccupata dal farsi le scarpe a vicenda che a liberarsi del baffuto presunto Pol Pot caraibico Maduro. Debole, malconsigliato e usato fin dall’inizio, in questi trenta giorni Guaidó si è appellato mille volte alla Costituzione e in particolare all’art. 233. Ha addirittura presentato un programma di governo (ultraliberale) ma non ha fatto l’unica cosa che l’articolo 233 – dal quale dipendeva la sua legittimità – gli chiedeva: convocare elezioni rilanciando la palla al chavismo. Evidentemente tra chi gli dava del “presidente a interim” e chi gli dava del “presidente legittimo” ha preferito ascoltare i secondi, ma neanche Mike Pence o Mourão, ma neanche CNN o Rede Globo o El País di Madrid, sono Kingmaker in grado di creare dal nulla o quasi leader in Venezuela.

E così Juan Guaidó, magnificato per un mese dai media monopolisti che più che attribuirgli del coraggio non sono riusciti, torna al punto di partenza, quello di giovane presidente a rotazione dell’Assemblea Nazionale. Sconosciuto ai più anche in Venezuela rispetto ai leader più o meno noti dell’opposizione, avrebbe messo tutti di fronte al fatto compiuto, con una bella faccia, la camicia bianca che fa tanto Tony Blair e una bella famigliola kennediana, concordando la mossa inizialmente con il solo Almagro, e proclamandosi presidente sostenendo che al palazzo di Miraflores Maduro fosse ormai solo un fantasma. Ma, in questo strano interim nel quale ha ottenuto più riconoscimenti all’estero che in casa, non avendo convocato elezioni nelle quali non sapeva neanche se sarebbe stato lui il candidato, è lui oggi a essere un fantasma.

Chi fa il tifo per un Pinochet venezuelano

Intanto la situazione venezuelana non varia che per un punto: rafforza Nicolás Maduro che oggi è più solido al governo di un mese fa. Dopo un mese di circo mediatico, la situazione di crisi economica e sociale venezuelana resta invariata, la qualità della vita peggiora soprattutto a causa dell’iperinflazione, la corruzione è oscena, il governo Maduro strepita contro l’embargo verso il quale ha alcune ragioni ma non tutte, può mettersi in petto la medaglia di difensore della Nazione dall’invasore imperialista, ma nel frattempo non ha un serio progetto per uscire dalla crisi.

Ma l’opposizione, Guaidó e gli altri, è così poco credibile da non meritare alcun credito da parte della popolazione, che evidentemente non desidera innanzitutto una invasione militare straniera e, almeno in parte, vede nel chavismo un’idea nazionale e di giustizia sociale da difendere tuttora con orgoglio. L’idea stessa della crisi umanitaria, dalla quale si sono dissociati subito chi, come la Croce Rossa o Caritas, fanno seriamente dell’umanitarismo il loro specifico da sempre, non solo va oltre la realtà (altrimenti Haiti? L’Honduras? La stessa Colombia?) ma si è dimostrata così smaccatamente una strategia militare e mediatica da essere impresentabile, come spiego più avanti.

Racconto qui un episodio personale che rende evidente come il circo mediatico egemonico sia il regno dell’incomprensione e della fake news. In questo periodo ho accettato molteplici inviti di media diversi, tra i quali SkyTg24 e RaiNews24, ma l’altro giorno ne ho ricevuto uno da un canale televisivo internazionale particolarmente prestigioso. Questo, nel chiedere il mio contributo, mi ha ben specificato come la politica non interessasse loro (sic), mentre volevano esclusivamente un intervento sulla “centralità dell’esercito” venezuelano (indiscutibile) che a loro dire avrebbe di lì a poco “risolto la crisi”. Vale a dire: oggi come nel 1973 in Cile (le similitudini in questo specifico sono enormi) la grande stampa liberal-democratica fa sempre il tifo per Pinochet.

Non conosco il nome del Pinochet venezuelano, ma se anche oggi stesso dovessero assassinare Nicolás Maduro questo non significherebbe la sconfitta del chavismo. In questo mese molti soggetti si sono resi conto di alcune cose che probabilmente non avevano calcolato e che i grandi media internazionali non mostrano mai al popolo bue dell’opinione pubblica, anche europea, nonostante leader come Corbyn o Sanders si siano coraggiosamente dissociati dall’appoggio unanime per Guaidó. Quella più evidente è che non è utile sottovalutare il chavismo, come invece da vent’anni viene fatto. L’opposizione lo ha sempre sottovalutato per idiosincrasia classista e razzista, incapace di accettare l’accelerazione democratica e inclusiva data dalla V Repubblica, per disprezzo verso una classe considerata inferiore, come quando l’aristocratico Capriles fu battuto da quello che per tutta la campagna elettorale aveva sprezzantemente chiamato “autista di autobus”. Piaccia o no Nicolás Maduro, il chavismo, nonostante la difficilissima situazione economica che vive il paese, in particolare a causa dell’iperinflazione, come movimento politico ha mostrato ancora in queste settimane una vitalità enorme ed ha nella sostanza vinto un’altra battaglia. In queste settimane le piazze chaviste si sono riempite in misura analoga a quella delle opposizioni, mostrando il paese polarizzato di sempre. La gente, i chavisti, non è affatto entusiasta. Molte delle mie fonti sono ferocemente critiche con i loro dirigenti, ma si sentono più chaviste che mai.

Così l’opposizione può continuare a raccontare al mondo – come fa da vent’anni – che Maduro sia solo, che il chavismo sia evaporato, che le elezioni siano fasulle, che chiunque scenda in piazza in camicia garibaldina lo faccia perché pagato o minacciato, ma la sostanza è che i chavisti restino milioni, forse non più maggioranza ma milioni. E continuerebbero a esistere anche in caso di regime change, esattamente come, a 64 anni dal golpe del 1955 in Argentina, che doveva cancellare il peronismo dalla faccia della terra, questo si accinga nuovamente a contendere la presidenza alle destre a Buenos Aires, rappresentando gran parte del fronte social-progressista.

Rumble in the jungle

Sullo show del fine settimana è presto detto. In due tappe è andato in onda un nuovo “Rumble in the jungle” (come quello del 1974 a Kinshasa tra Alì e Foreman) che ha convogliato in un luogo remoto del mondo, il confine colombo-venezuelano, l’attenzione dei media, prima con un live-aid umanitario e poi con il tentativo di forzare la mano con la penetrazione dei presunti aiuti umanitari che – qualcuno ha calcolato – corrisponderebbero a circa 10 grammi per ogni venezuelano. Nulla era lasciato al caso. Il concerto ha visto coinvolti alcuni dei più famosi artisti pop del mondo ibero-americano, nessuno dei quali si era mai impegnato prima in cause umanitarie o per i diritti umani (qualcuno di loro si era perfino in passato esibito per Pinochet), tutti in rigorosa camicia bianca alla Tony Blair, per marcare il territorio delle rappresentazioni: gioventù, libertà, mani pulite.
Il giorno dopo lo show artistico andava in scena quello nel quale i liberatori avrebbero forzato il confine per liberare il Venezuela distribuendo sigarette e cioccolata come fosse un film neorealista nell’Italia del 1945. Non sappiamo quanto davvero ci credessero al fare entrare gli aiuti a bordo di alcuni camion o quanto questi dovessero esclusivamente provocare la scintilla e mostrare la brutalità del regime venezuelano che preferiva bruciare gli aiuti, lasciando morire di fame la popolazione e, se il caso, arrivare ad un intervento militare USA o appaltato ai governi di estrema destra latinoamericani.

Perfino il nostro “La Repubblica”, che da vent’anni copincolla El País di Madrid, riprendendo acriticamente gli argomenti dell’opposizione venezuelana, mette in dubbio la dinamica dello show. Con ogni evidenza il camion di USAID, che nessuno sa realmente cosa contenesse, è stato bruciato in maniera concordata da elementi violenti dell’opposizione quando ancora era in territorio colombiano. O dovremmo dedurre che Maduro abbia invaso la Colombia prestando il fianco a una ritorsione militare, la cosa più stupida che potesse fare? Ancora una volta rappresentare il chavismo, con i suoi mille difetti, inefficienze, corruzione come anche stupido tradisce il wishful thinking dell’opposizione. Piuttosto viene da pensare: la città di Cúcuta, il dipartimento del Nord di Santander, dove sono avvenuti i fatti, è un luogo pauperrimo della Colombia, con il 50% di indigenti e fame diffusa tra la popolazione, che vive per lo più di contrabbando col Venezuela. Né le stelle del pop, né le organizzazioni umanitarie (delle quali si sono fin dall’inizio rifiutate di far parte Croce Rossa e Caritas) si sono preoccupate dei bambini affamati che si accalcavano fin sotto il palco.

Tutto inutile, qualunque accelerazione è fallita. Guaidó torna nell’ombra, vorrebbe solo tornare a Caracas nel suo quartiere per ricchi ma teme che l’aver trattato col nemico non sia cosa da poco per il trinariciuto autista di autobus. Questi, Maduro, è saldamente al potere anche se la crisi non è affatto risolta e non sa come risolverla. Resta il dialogo, quello fino a domenica escluso dai buoni, i nostri senza macchia e senza paura, i liberal-democratici e oggi rientrato dalla finestra. Il dialogo, per quanto difficile e tortuoso è l’unico cammino. Ma questo lo sapevamo già.

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