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L’ammonimento del ciclone

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

L’Africa produce solo il 4% dei gas serra, ma paga le conseguenze del riscaldamento globale. L’uragano Idai, che ha provocato 761 morti in Mozambico, Zimbabwe e Malawi, dovrebbe mobilitare i governi africani. Ma mancano competenze e risorse economiche.

Mentre il 14 marzo a Nairobi iniziava la terza edizione di One Planet Summit presieduta dal presidente francese Emmanuel Macron e dal suo omologo kenyano Uhuru Kenyatta, l’ironia della sorte ha voluto che il passaggio del ciclone Idai devastasse intere regioni in Mozambico, Malawi e Zimbabwe.

La tempesta tropicale ha sviluppato raffiche di vento che hanno raggiunto i 195 km/h, accompagnate da piogge sferzanti, che hanno causato allagamenti e frane, distrutto raccolti e interi villaggi e provocato, nei tre paesi colpiti, la morte di 761 persone.

La nazione più colpita è stato il Mozambico (446 morti), in particolare la città di Beira, la seconda più popolata del paese, da dove giungono testimonianze di «intere comunità totalmente cancellate»,mentre migliaia di persone sono rimaste per giorni in attesa di soccorsi, intrappolate sugli alberi e sui tetti delle case rimaste in piedi. Purtroppo, Idai costituisce un’altra dimostrazione del potere distruttivo degli eventi atmosferici estremi che diventeranno sempre più frequenti a causa del riscaldamento globale.

Così, mentre le comunità dei tre paesi colpiti stavano affrontando sulla propria l’impatto dei cambiamenti climatici, i leader delle nazioni presenti al One Planet Summit tenevano il loro discorso all’interno di confortevoli e climatizzate meeting room. È in queste sale che Macron ha incoraggiato la collaborazione globale per garantire la conservazione sostenibile delle foreste, mentre il presidente Kenyatta si è impegnato a raggiungere in Kenya almeno il 10% di copertura forestale nei prossimi tre anni.

Va anche sottolineato che tutto questo è avvenuto quattro giorni prima della Settimana africana del clima, che si è svolta dal 18 al 22 marzo ad Accra (Ghana), dove si è cercato di trovare una soluzione ai dirompenti effetti dei cambiamenti climatici che tormentano il continente il quale, come è emerso da tutte le Conferenze delle parti sui cambiamenti climatici (Cop), è il più colpito dal fenomeno.

Siccità nel Corno d’Africa

L’Africa paga il prezzo più alto del global warming nonostante produca solo il 4% dei gas serra (emissioni globali di carbonio), rispetto all’80% prodotto dai paesi più industrializzati del G20. Dunque per l’Africa il cambiamento climatico non rappresenta un rischio futuro, ma è già una realtà come evidenziano i ripetuti fenomeni disastrosi (siccità, inondazioni, cicloni…).

Lo attestano anche le stime degli esperti del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (Ipcc), che hanno stabilito che l’Africa si scalderà una volta e mezzo più rispetto alla media globale, con conseguenze devastanti. Tra queste conseguenze, si evidenzia la scomparsa ogni anno di quattro milioni di ettari di foreste, il doppio rispetto al resto del mondo. Tutto ciò appare assurdo in un continente non industrializzato.

L’Istituto per gli studi sulla sicurezza (Iss), con sede a Pretoria, per i prossimi decenni prevede l’intensificarsi della siccità in Africa subsahariana con un conseguente aumento delle carestie e della desertificazione, mentre nelle aree aride e semiaride i modelli delle precipitazioni atmosferiche diventeranno sempre più irregolari. E un’ulteriore riprova dell’allarme lanciato dall’Iss è quello che sta avvenendo nel Corno d’Africa, dove milioni di persone sono a rischio fame a causa della siccità, che sta devastando diverse regioni di Etiopia, Somalia ed Eritrea, oltre a 12 contee del Kenya.

L’impatto del climate change in Africa avrà ripercussioni negative anche sull’insicurezza alimentare, come evidenzia Fewsn (Famine early warning systems network), la rete statunitense che rileva il sopraggiungere di carestie, secondo cui nei prossimi mesi è previsto un drammatico peggioramento della situazione nel Corno d’Africa.

Il continente africano è inequivocabilmente l’area del pianeta più vulnerabile agli effetti del cambiamento climatico, in special modo a causa dell’elevata e diretta connessione della sua economia alle risorse naturali. Purtroppo, finora i governi locali hanno mostrato una debole capacità di risposta nell’affrontare le sfide ambientali, come rilevato da una recente indagine coordinata dal Climate and Development Knowledge Network (Cdkn), che ha riscontrato che i governi e le imprese di molti paesi africani non si stanno impegnando in maniera efficace per arginare il fenomeno del riscaldamento globale.

Il punto debole nella risoluzione del problema è l’insufficienza di competenze e di risorse economiche. E la violenza del ciclone Idai è un altro duro richiamo al fatto che milioni di vite umane dipendono dalla capacità dei governi locali di superare queste criticità.

 

(Marco Cochi, Nigrizia, 26 marzo 2019)

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