venerdì, Novembre 22, 2024

“Il femminismo è machismo con la gonna”: parola di papa Francesco! (don Paolo Zambaldi)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

“Il femminismo è machismo con la gonna”

Dal discorso tenuto a Roma da papa Francesco, in occasione dell’Incontro mondiale sulla pedofilia del clero (22 febbraio 2019).

Questa affermazione di Francesco continua l’opera di svilimento della donna che anche questo pontificato, ritenuto dai più, aperto, misericordioso e illuminato, mette in atto con una insistente e malcelata violenza.

Ricordiamo con orrore l’intervento sulle donne che abortiscono, paragonate ad assassine che ingaggiano “sicari” per uccidere i loro bambini o equiparate ai nazisti, truci selezionatori della razza.

Orrore amplificato dal fatto che queste osservazioni fanno da contraltare ai ministri dell’attuale governo (e ai loro raduni veronesi!) che inneggiano alla restaurazione omofoba e antifemminile.

Il movimento di liberazione della donna (la parola “femminismo” ne è solo una sintesi semplicistica) è stato una pietra miliare per il riconoscimento dell’uguaglianza tra persone di diverso genere. Esso infatti ha dato voce a una legittima ribellione contro il millenario oppressivo patriarcato (quello sì machista!), che poggiandosi su una presunta superiorità maschile , fisica e intellettuale, aveva ingiustamente emarginato la donna  chiudendole ogni possibilità di realizzazione personale che non fosse quella di moglie e madre- Esso ha, inoltre, permesso alle donne di superare la grave violazione dei diritti civili che quello strapotere causava: l’esclusione dal voto, l’accesso difficile e impari al mondo del  lavoro, l’impossibilità di dedicarsi  allo studio, la negazione della libertà di scelta riguardo  alla procreazione e riguardo alla possibilità di decidere l’interruzione di un legame matrimoniale divenuto insostenibile.

Questa lotta, oltre ad aver ottenuto risultati pratici, ha di fatto aiutato le donne ad emanciparsi dal “senso di colpa “sul quale i maschi, da sempre, hanno contato, per costringere mogli e figlie all’obbedienza, le ha spinte a superare l’ineluttabilità del loro ruolo di “servizio” in seno alla famiglia e alla società, ha demolito (anche grazie alla scienza) credenze oppressive/distruttive. Ad esempio è stata chiarita la pari responsabilità della sterilità, è stato dimostrato il ruolo del padre nella determinazione del sesso del nascituro, è stato sfatato il pregiudizio secondo il quale la donna avrebbe avuto un cervello più piccolo e leggero e dunque minori capacità intellettuali! Risultati di non poco conto, visto che per secoli quelle credenze erano state causa di immane sofferenza e di esclusione sociale.

Naturalmente “queste presa di coscienza” ha destabilizzato (a ragione) un ordine millenario, rigido e strutturato, che si fondava in gran parte proprio sul pregiudizio antifemminile e che garantiva all’ uomo/maschio assoluta libertà e assoluto potere.

A questo proposito, Virginia Woolf, femminista della prima ora, splendida scrittrice, intellettuale di spicco nella Londra del primo novecento, nel suo racconto “Una stanza tutta per sé – A Room of One’s Own” scrive:

“Per tutti questi secoli le donne hanno avuto la funzione di specchi, dal potere magico e delizioso di riflettere raddoppiata la figura dell’uomo. […] Perciò Napoleone e Mussolini insistono tanto enfaticamente sull’inferiorità delle donne, perché se esse non fossero inferiori cesserebbero di ingrandire loro. Questo serve in parte a spiegare la necessità che gli uomini spesso sentono delle donne. E serve a spiegare come li fa sentire inquieti la critica femminile; come a lei sia impossibile dir loro che il libro è brutto o il quadro difettoso, o cose del genere, senza provocare assai più dolore e suscitare assai più rabbia di quanta potrebbe suscitarne un uomo con la stessa critica. Perché se la donna comincia a dire la verità, la figura nello specchio rimpicciolisce; l’uomo diventa meno adatto alla vita.“

Come si fa dunque ad identificare il machismo con il femminismo?  Come si fa a confondere la causa con l’effetto? Gli oppressori con gli oppressi? La ribellione dello schiavo con la violenza del padrone?

Questa affermazione papale esprime un disprezzo che accarezza le pulsioni fasciste (machiste)  che ancora dicono riguardo allo stupro “te la sei cercata”, che minimizzano la violenza domestica (vedi la recente sentenza ammorbidita che ricorda l’impunibilità garantita al “delitto d’ onore”), che imputano il fallimento della famiglia al lavoro e alla emancipazione femminile, alla pretesa “folle” delle donne di decidere unilateralmente una separazione, alla loro “inaccettabile” libertà  di rifarsi una vita, pulsioni fasciste che ispirano leggi ingiuste, regressive, sessiste .

La Chiesa, in realtà, ha da sempre offerto (e continua purtroppo ad offrire) una sponda autorevole a questa interpretazione restrittiva del mondo femminile: richiamandosi alla Bibbia, all’autorità della tradizione e del magistero ha    cocciutamente escluso le donne dal sacerdozio e dalle posizioni importanti, ha ignorato bellamente la loro teologia,  le ha private persino della parola nei sinodi e nei concili, le ha relegate ad umili servizi (perpetue, serve, suore), esaltando in loro unicamente l’obbedienza e la sottomissione e astutamente mettendo loro davanti come esempio ispiratore Maria, ridotta a icona dell’amore immacolato, dell’assertività senza domande, di una sessualità senza carne.

La Chiesa ha ignorato (e ancora ignora) volutamente le figure femminili significative della storia veterotestamentaria, che spesso hanno saputo essere protagoniste e maestre, profetesse e salvatrici. Così come ha letto in senso riduttivo anche i passi evangelici in cui Gesù riscattava l’immagine delle donne, pur non negando, condizionato dallo spirito del suo tempo, il patriarcato.

La Chiesa rifiutando infatti la lettura storico/critica dell’Evangelo, ne sposta i giudizi “sic et simpliciter” nel mondo d’oggi, come se non fossero passati 2000 anni, come se il mondo arcaico-pastorale non avesse subito nessuna evoluzione, come se la scienza, l’antropologia, la psicologia fossero ancora di là da venire.

Inoltre papa Francesco, come osserva giustamente l’editorialista dell’inserto femminile dell’Osservatore Romano, Lucetta Scaraffia, evoca non a caso, nello stesso discorso in  cui condanna il femminismo, l’antica/vuota/letteraria metafora “della Chiesa donna e madre”,  privando così la realtà femminile di ogni consistenza, anzi annichilendola in un confronto impari, portando il discorso della vita delle donne in una dimensione metafisica, celeste, e dunque svicolandosi furbescamente da ogni responsabilità concreta.

Per altro non è una novità questo linguaggio “distraente e mistificatore”! Anche la metafora “sponsale” usata per descrivere il rapporto tra Dio e la Chiesa, celebra ancora una volta una realtà disincarnata e perfetta, in cui la concretezza dell’umano scompare, ma che di fatto rappresenta e rafforza l’immagine del maschio/Dio dominante e della femmina/Chiesa adorante e fedele.

E come dice Scaraffia le donne sono stanche di essere metafore. Vogliono essere semplicemente accolte senza il fardello secolare del pregiudizio.

Il papa inoltre, stigmatizza le conquiste del mondo femminile, proprio mentre parla di repressione della pedofilia, il disastro prodotto dalla complicità tra il clericalismo e il maschilismo patriarcale, che tende a coprire sè stesso, a fare gruppo contro i più deboli, a negare l’evidente violenza dei suoi comportamenti, a sottrarsi da ogni responsabilità che implichi rispetto e condivisione. Non a caso “il padre” non compare mai come figura significativa nel discorso sull’aborto, nè si sottolinea come spesso sia proprio l’arroganza e l’immaturità del marito (che considera ancora la moglie una proprietà) a frantumare le relazioni…

Tutto ciò è desolante!

Ma finchè dalla massima autorità della Chiesa saranno pronunciate simili sconsiderate parole, non c’è speranza di cambiamento, né è possibile credere a una vera volontà di riconoscere e riparare le proprie colpe.

 

don Paolo Zambaldi

 

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