Figure paterne come quella invocata da Prodi. Grandi conquistatori alla Berlusconi. Leghisti circondati da deputate obbedienti. Partitelli di sinistra intasati dai maschi. E le donne sono le grandi assenti della politica
Romano Prodi dice che l’Italia e il Pd hanno bisogno di un padre. Una figura «[…] autorevole, che sappia finalmente ascoltare, riconciliare, tranquillizzare ma anche decidere».
È il 2019, e a fronte della crisi dei progressisti in tutto il mondo e della necessaria ridiscussione dei modelli a cui siamo ancorati, lo stato della sinistra in Italia si riassume ancora così: in un dialogo che assimila la leadership alla figura paterna. Un affare fra maschi, in cui il potere del padre si manifesta nella sua accezione più benevola, ma non per questo meno tossica.
Sparare sul Pd è uno sport molto diffuso, di questi tempi, per la logica secondo cui c’è più gusto a prendere a calci la gente quando è a terra. E che il Partito Democratico di errori ne abbia fatti, e clamorosi, anche e soprattutto in materia di inclusione attiva di donne e minoranze, è un dato che pochi, a questo punto, si sentono di discutere: da un partito relativamente giovane, fondato poco più di una decina di anni fa, era legittimo aspettarsi che fosse più ricettivo rispetto ad altri alla creazione di un nuovo genere di leadership, più diffusa, più collegiale, piuttosto che alla riproposizione delle solite vecchie dinamiche di cooptazione, allargate di quando in quando alle donne disponibili e disposte a fare da gregarie.
Quando il Pd arriva sulla scena, Berlusconi ha già imposto il modello del partito personalistico, in cui il leader sostituisce le idee. È un modello in cui le donne sono organiche alla visione di un capo che propone e dispone (con metodi di selezione più o meno discutibili). Forza Italia è un partito padronale e funziona, ma avvelena il terreno della discussione politica, lo intossica di un machismo intollerabile. Per far fronte a Berlusconi bisogna essere più Berlusconi di lui, e nessuno ce la fa. Oppure bisogna batterlo sul terreno dell’autorevolezza, della fermezza, della capacità di tenere il punto.
E qui ritorna Romano Prodi, unico vero avversario dell’allora Cavaliere e unico in grado di batterlo: Prodi. Eppure è in quella classe dirigente preparata e bonaria ma incapace di autocritica profonda che è annidato il nocciolo del problema: una classe dirigente competente quanto incapace di esaminare se stessa e il maschilismo da cui è inevitabilmente affetta. «Se ci sono donne nel Pd si facciano avanti»: quella lanciata da Carlo Calenda su Twitter è quasi una sfida, forte di una posizione di privilegio più o meno consapevole. L’assunto è che se non si fanno avanti è perché non ci sono, non mostrano il carisma e la visione necessarie a farsi leader: questo è il pensiero dominante in un partito che anno dopo anno ha continuato a riproporre una visione della politica maschile e maschiocentrica, in cui le donne erano poco più che un punto nel programma, più che altro alla voce “mamme”.
Se a sinistra la visione è questa, figuriamoci se è possibile lamentarsi dello squilibrio di genere in partiti come la Lega di Salvini, che non si fa problemi a mostrare aperto disprezzo per le donne in generale e le femministe in particolare. Gli esempi non mancano – dal fantoccio di Laura Boldrini esibito alla manifestazione fino alle più recenti dichiarazioni sulla volontà di promuovere una legge contro la violenza di genere “dopo anni di chiacchiere femministe”, appunto – ma per chi ancora nutrisse dei dubbi dovrebbe essere sufficiente la lettura integrale dell’agghiacciante Ddl Pillon sull’affido condiviso.
Dalla gestione Salvini della fu Lega Nord non dobbiamo aspettarci molto più che la cooptazione di donne disposte a non mettere mai in discussione lo status quo: efficienti ancelle del potere costituito, saldamente in mano ai maschi. Se non altro Berlusconi ha fiuto per capire da che parte tira il vento, ed è più bravo a lasciare le briglie sul collo alle donne del suo schieramento. Prima di tutte Mara Carfagna, emersa trionfante dalla stagione delle “vergini offerte al drago” grazie a considerevoli doti personali e a una certa eleganza comunicativa.
Stiamo comunque parlando di un partito verticistico, il cui impianto ideologico è stato creato dallo stesso uomo che fra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80 ha riempito la televisione italiana di donnine seminude e ammiccanti, non persone desideranti ma oggetti di un desiderio superficiale. A Berlusconi dobbiamo, fra le altre cose, l’abolizione delle norme che impedivano le cosiddette “dimissioni in bianco” da far firmare all’attivazione di un contratto con una dipendente, in caso questa rimanesse incinta, e la legge 40 sulla fecondazione assistita, da allora dichiarata più volte incostituzionale ma rimasta intatta nel nostro ordinamento.
Leader non si nasce, si diventa, ma nessuno si improvvisa o può figurarsi leader se non ha modelli di riferimento in cui rivedersi. Il meccanismo di selezione delle candidature all’interno del Movimento 5 Stelle, quelle Parlamentarie aperte a chiunque, ha contribuito ad aumentare il numero di donne nelle due Camere, ma non sembra avere inciso sull’indirizzo apertamente misogino del governo. Al momento gli unici due partiti a leadership femminile sono Fratelli d’Italia, guidato da Giorgia Meloni, e Possibile, che dopo le dimissioni del fondatore Civati ha eletto segretaria Beatrice Brignone. Entrambi sono partiti di minoranza, con Fratelli d’Italia che presenta un impianto sostanzialmente identico a quello della Lega nei contenuti se non nei metodi, e Possibile che paga la partecipazione all’esperienza fallimentare di LeU, una formazione annunciata al mondo da una stretta di mano fra quattro uomini e una serie di uscite più che rivelatrici da parte di Pietro Grasso, altra figura paterna scelta per condurre il gregge.
È l’assenza del femminismo, l’ostinazione nel considerarlo un movimento di frangia, a pesare più di tutto nel rapporto fra la politica italiana e le donne. Femminismo come pratica di inclusione, come cultura di riferimento intorno a cui modellare l’azione, il linguaggio, lo stile di leadership. Ci si raggruppa, invece, sperduti, intorno a quello che è più bravo a fare la voce grossa. Si confonde la partecipazione femminile con le mancette elettorali. “Donne! Venite con noi!” gridava Maurizio Martina dal palco di Piazza del Popolo, non più tardi di settembre 2017. Da allora, non ci si è ancora chiarito il perché.