Per anni il ritornello del muro al confine messicano ha colorato la retorica securitaria di Trump, prospettando ai complessi fenomeni delle migrazioni continentali una soluzione drastica e immediatamente intellegibile: l’indiscutibile perentorietà dell’acciaio, sorretta dall’affidabilità del cemento a stelle e strisce. Il muro trumpiano rappresenta un’idea e se vedrà davvero la luce, proiettando l’ombra dello stato-nazione americano al di qua e al di là del confine, non saremo soltanto di fronte a un’infrastruttura inquietante e militaresca, ma al primo immane monumento al sovranismo.
Un monumento al sovranismo incombe nell’oscurità. Ma partiamo dal principio, anzi: dall’immaginario.
Nel pieno della notte un elicottero militare sorvola un gruppo di uomini, donne e bambini in corsa nella vegetazione brulla tra Messico settentrionale e Stati Uniti meridionali, direzione nord. Ben presto, sono circondati da uomini in mimetica e mezzi delle autorità di frontiera statunitensi a sirene spiegate.
Fucili alla mano, gli agenti impongono al gruppo di fermarsi, mentre un uomo tenta una fuga disperata. Ma è braccato dai corpi speciali, lo vediamo desistere attraverso i visori notturni del commando mentre si inginocchia, estrae qualcosa dallo zaino e volge i palmi delle mani verso il cielo.
La telecamera si avvicina e riconosciamo un uomo dai tratti mediorientali: recita «Ahlamdulillah, Allah Akbar» («rendo grazie ad Allah, Allah è grande»), prima di premere il detonatore e saltare in aria assieme ai soldati che lo stavano accerchiando.
È la scena di apertura di Sicario: Day of the Soldado (Stefano Sollima, 2018), film molto evocativa rispetto ai rapporti sfumati tra sicurezza e illegalità a cavallo del confine Usa-Messico, giocato sul confronto tra forze di sicurezza statunitensi e organizzazioni del narcotraffico messicano, accomunate dalla medesima spietatezza.
Le zone grigie indagate da Sollima nella sua pellicola finiscono per perdersi nella post-fattualità di una certa cronaca “made in usa”. Un esempio lampante è il recente articolo pubblicato in esclusiva dal quotidiano di destra «Washington Examiner».
L’«Examiner», intervistando una “rancher” statunitense coperta dall’anonimato per timore di rappresaglie degli “uomini del cartello”, rivela che diversi fattori locali hanno trovato nei loro terreni alcuni “tappetini da preghiera”, a dimostrare la veridicità di chi sostiene che dallo sguarnito confine americano meridionale non entrerebbero solo messicani o sudamericani, ma anche “altri”.
Altri” nel senso di musulmani, cioè, almeno per la stampa della destra americana, terroristi.
Eppure, ad oggi, non risulta alcun caso comprovato di terrorista islamico entrato negli Stati Uniti attraverso il confine messicano.
Nonostante né l’«Examiner» né la “rancher” anonima siano in grado di portare alcuna prova fattuale a sostegno della loro “clamorosa” rivelazione, il titolo del pezzo è stato entusiasticamente ritwittato dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, impegnato in queste settimane in un drammatico braccio di ferro con il Congresso per dare il via libera allo sblocco di 5,7 miliardi di dollari da utilizzare per la costruzione del “big, beautiful border wall” lungo una parte del confine messicano.
I tre elementi elencati fino ad ora – un film di fantasia, una notizia inventata dalla stampa di destra e il rilancio del presidente degli Stati Uniti – riassumono la grande fumosità della stampa internazionale nella copertura del trumpismo in senso lato e l’incapacità di utilizzare quella cassetta degli attrezzi del giornalismo anglosassone (che prevede: oggettività, imparzialità, fattualità) per operare su una materia politica mai così instabile ed evanescente.
Per anni, ormai, il ritornello del muro al confine messicano ha colorato la retorica securitaria di Trump con le tinte sgargianti del buon senso popolare, prospettando ai complessi fenomeni delle migrazioni continentali – con innumerevoli cause e concause che spaziano dalla geopolitica alla demografia, liquidate alla stregua di “roba per accademici fighetti che non hanno mai lavorato” – una soluzione drastica e immediatamente intellegibile: l’indiscutibile perentorietà dell’acciaio, sorretta dall’affidabilità del cemento a stelle e strisce.
E poco importa se litri e litri d’inchiostro vengono versati per smontare razionalmente e fattualmente l’equazione “muro = sicurezza” offerta da Trump a un elettorato sparpagliato su nove fusi orari, dall’Alaska al Maine.
Il muro trumpiano è un’idea, trascende la rigidità del mondo fenomenico, non si piega alle regole dell’attuabilità – quanto lungo? Quanto alto? D’acciaio o di cemento? Trasparente, come in Israele? – né, men che meno, all’opposizione del Congresso.
È un’idea che va difesa a tutti i costi, mentre l’amministrazione del presidente continua a perdere pezzi e le rivelazioni di ex stretti collaboratori di The Donald si fanno sempre più esplosive.
È un’idea che vale lo shutdown più lungo della storia degli Stati Uniti, più di ottocentomila lavoratori senza busta paga e uno scontro istituzionale senza precedenti tra presidenza e parlamento.
In un’interessante intervista apparsa su «The Nation», Wendy Brown, professoressa di scienze politiche presso UC Berkeley e autrice del volume Walled States, Waning Sovereignty (2010), spiega: «[Nel libro] sostenevo che i muri fossero la risposta al declino della sovranità e della nazione, conseguenza della globalizzazione. I muri stavano a significare popolazioni in ansia, perdita di un “noi” nazionale e del controllo esercitato dalla nazione – tutte cose che abbiamo visto esplodere enormemente. […] La tesi del mio libro ora si è fatta senso comune. I muri sono desiderati perché segnano qualcosa: stabiliscono dove finiamo “noi” e dove iniziano “loro” e la nostra capacità di governare certe situazioni».
Non a caso Trump, a più riprese, e sempre sguazzando nel mare magnum della post-fattualità, si rifà ad analogie e concetti orgogliosamente retrogradi, di fatto vendendo il prodotto “medioevo” a un pubblico che il medioevo non l’ha mai avuto.
Deficit sofferto sia dai sostenitori sia dai detrattori del presidente, come ben spiegato dallo storico David Perry alla CNN.
Sbracciandosi nel limitato “marketplace of ideas” americano durante una visita lungo il confine meridionale, Trump perorava la causa del muro “medievale” con queste parole: «Dicono che “un muro è medievale”. Bene, anche la ruota lo è. La ruota è anche più vecchia del muro. E sapete che c’è? La ruota funziona e il muro funziona. Niente funziona bene come un muro».
E così tre anni fa, nel corso di un comizio elettorale alla Liberty University, in Virginia: «Duemila anni fa la Cina costruì la Grande Muraglia Cinese. È un muro serio. E non avevano nemmeno le scavatrici Caterpillar. Non avevano gli attrezzi. Eppure hanno costruito un muro. Pensateci: tredicimila miglia di muro. È un muro serio, ok? È un muro bello largo».
Se e quando il muro di Trump vedrà la luce, proiettando l’ombra dello stato-nazione americano al di qua e al di là del confine, non saremo soltanto di fronte a un’infrastruttura inquietante e securitaria, ma a un immane monumento dei nostri tempi: il primo grande lascito architettonico del sovranismo.
Come la Grande Muraglia, la Tour Eiffel e la Statua della Libertà, il “Muro” vuole essere l’incarnazione di un’idea del proprio tempo, vuole cioè immortalare nel mondo materiale un concetto capace di rassicurare un popolo al prezzo di terrorizzare l’umanità.
Non c’è debunking o argomento sensato che tenga. Il “Muro”, che si faccia o meno, è già il monumento a una battaglia che stiamo perdendo.