Roma, 8 febbraio 2019, Nena News – L’accusa è pesante, ma non più sorprendente: il giornalista saudita Jamal Khashoggi è stato vittima di un “omicidio premeditato e brutale pianificato e perpetrato da ufficiali dell’Arabia Saudita”. A dirlo è stata ieri la relatrice speciale dell’Onu sulle esecuzioni extragiudiziarie Agnes Callamard che sta indagando sul caso Khashoggi. Callamard ha anche riferito di aver ascoltato parte del materiale audio relativo all’omicidio del giornalista consegnatole dalle agenzie di intelligence turche e lo ha definito “raccapricciante e agghiacciante”. Riyadh, ha spiegato, non solo sarebbe dietro l’assassinio dell’editorialista del Washington Post, ma avrebbe anche “ostacolato seriamente” gli sforzi di Ankara di ricercare la verità su quanto accaduto all’interno del consolato saudita di Istanbul dove Khashoggi è stato ucciso lo scorso 2 ottobre.
“Tempo e accesso deplorabilmente inadeguati sono stati garantiti agli investigatori turchi per condurre un serio e professionale esame delle prove così come richiesto dagli standard internazionali per compiere una indagine”, ha denunciato Callamard che ha poi espresso “grandi preoccupazioni” per la mancanza di giustizia nei processi delle 11 persone incriminate in Arabia Saudita per l’uccisione di Khashoggi. Per giugno, ha poi concluso l’investigatrice, Onu presenterà il suo rapporto conclusivo. Quel che risulta poco chiaro al momento è se le autorità saudite permetteranno al team investigativo delle Nazioni Unite di effettuare le loro ricerche anche in Arabia Saudita. Quel che per ora però pare essere sempre più certo è che dietro l’assassinio del giornalista dissidente ci siano importanti alti esponenti del regno saudita: le agenzie di intelligence statunitensi hanno puntato il dito addirittura contro il principe ereditario Mohammed bin Salman, considerato da non poche cancellerie e media occidentali come un “modernizzatore” e “riformista”.
Riyadh chiaramente nega qualunque sua responsabilità e attribuisce la colpa per quanto accaduto ad alcune “canaglia” che avrebbero agito da soli. Mercoledì il Wall Street Journal ha scritto che le autorità saudite starebbero provando a confutare la conclusione della Cia secondo cui sarebbe stato proprio Mohammed bin Salman a dare luce verde per l’assassinio. Un rapporto confidenziale preparato per il pubblico ministero saudita dalla compagnia di sicurezza privata Kroll non ha trovato alcun messaggio WhatsApp scambiato il giorno dell’omicidio tra bin Salman e il suo principale assistente Saud al-Qahtani, indicato da più fonti come colui che ha guidato il team saudita cha ha ucciso il giornalista nel consolato di Istanbul. Un particolare non irrilevante perché, sottolinea il Wall Street Journal, l’esistenza di quei messaggi costituiva una delle prove addotte dalla Cia”.
Riyadh ha finora arrestato 21 sauditi per l’omicidio. Di questi, 11 sono stati incriminati e processati. Per cinque di loro il procuratore ha chiesto la pena di morte. La Turchia però vorrebbe dall’Arabia Saudita l’estradizione degli accusati perché il crimine è avvenuto sul suo territorio nazionale e vorrebbe pertanto processarli nei suoi tribunali. Del caso Khashoggi se n’è occupato anche il New York Times. Il prestigioso quotidiano statunitense ha scritto ieri che un anno prima che il giornalista venisse ucciso, il principe ereditario saudita bin Salman aveva detto ad un suo assistente che avrebbe usato un “proiettile” contro di lui se non fosse ritornato in Arabia Saudita (Khashoggi era di fatto in auto-esilio negli Usa) e non avesse smesso di criticare la monarchia. Secondo quanto riferisce il quotidiano, questi commenti sarebbero stati intercettati dalle agenzie d’intelligence americane i cui analisti, sebbene ritengano che quel “proiettile” vada letto in senso metaforico, affermano che nelle intenzioni del principe ereditario ci fosse veramente la volontà di uccidere il giornalista dissidente.
Continuano intanto le proteste di gran parte del mondo politico americano contro l’alleata Arabia Saudita per l’omicidio Khashoggi e la guerra in Yemen, iniziata quasi 4 anni fa da Riyadh. Ieri parlamentari bipartisan repubblicani e democratici hanno ribadito la loro richiesta di impedire la vendita di armi ai sauditi nonché di imporre sanzioni contro coloro che sono ritenuti responsabili della morte del giornalista. I democratici Bob Menendez, Jack Reed, Jeanne Shaheen e Chris Murphy e i repubblicani Todd Young, Lindsey Graham e Susan Collins hanno inoltrato la loro richiesta il giorno prima dell’invio al Congresso americano di un report della Casa Bianca sulle possibili responsabilità di bin Salman per l’omicidio Khashoggi.
Al momento però l’amministrazione Trump mantiene un profilo basso e non ha confermato la presentazione del documento per oggi. Ma se The Donald non dice una parola contro la monarchia, ad alzare la voce contro Riyadh è il presidente della Commissione Affari Esteri della Camera dei Rappresentanti Eliot Engel che ha chiesto ieri al Congresso di considerare la possibilità di porre restrizioni sulla vendita di armi alla coalizione saudita impegnata nella guerra in Yemen. A spingere Engel è stato il recente rapporto pubblicato dalla Cnn secondo cui alcune armi americane sarebbero state trasferite a gruppi yemeniti collegati ad al-Qa’eda. Engel non è una voce isolata: ieri infatti la Commissione ha votato (27 a 17) a favore di una risoluzione che impedirà all’esercito statunitense di fornire alcun tipo di supporto ai sauditi e ad altri Paesi che combattono i ribelli sciiti houthi in Yemen. Il voto è l’ennesima prova della frustrazione di non pochi esponenti politici americani per le strettissime relazioni tra Washington e Riyadh.