mercoledì, Dicembre 18, 2024

Se questa è una donna. Dov’è Dio, in questa storia? (Lidia Maggi)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Una sedia vuota, con appoggiato un capo di abbigliamento femminile, rosso, e una borsetta, occupa un posto centrale in molte chiese protestanti. Un gesto simbolico, nominato come “il posto occupato“, pensato da sorelle e fratelli di chiesa, consapevoli che il fenomeno della violenza contro le donne riguarda anche le nostre chiese. Sono anche i nostri uomini che maltrattano, fino a uccidere. Un’esagerazione provocatoria?

La violenza è un ingrediente che non vorremmo trovare nello spazio della fede: riguarda gli altri; noi siamo tutelati dall’anticorpo della fede. Eppure la Bibbia, proprio nel raccontare la fede di un popolo chiamato ad abitare la terra, la mette insistentemente in scena, come controcanto alla storia della salvezza. Ci sono tematiche indigeste, che le comunità di fede vorrebbero censurare, cancellare dalla gloriosa epopea della loro liberazione, operata dal loro Dio. Fra tutte, la violenza: quella subita da un popolo nomade, precario, chiamato di continuo a fare i conti con l’ostilità e la diffidenza dei popoli, che incontra nel suo peregrinare; ma anche la violenza messa in atto dagli stessi figli di Israele.

La Bibbia osa narrare quelle storie di violenza, che hanno per protagonisti i padri fondatori, gli eroi del futuro popolo di Israele. Non è ammesso l’oblio, né l’idealizzazione dei tempi fondativi. La violenza è una “vera presenza” nella vita del clan, degli uomini benedetti da Dio. La Scrittura non ritiene che basti negarla, rimuoverla per poterla superare. Al contrario, va narrata, ricordata, denunciata, per permettere a chi legge di riconoscerla ed elaborarla.

Sorvolare sulle pagine violente della Bibbia, per frequentare solo quelle che narrano storie edificanti, significa banalizzare il male, sottraendosi a quella radicale intelligenza dell’umano, che osa guardare l’abisso del cuore. Significherebbe non avere occhi per vedere un problema sociale, che segna tutte le relazioni, anche le più intime.

La storia di Dina, una delle figlie di Giacobbe, sarebbe finita nell’oblio, se il narratore biblico non l’avesse raccolta, custodita, interrogata e narrata, suscitando disgusto e sconcerto in chi ascolta. Dina è una pedina, merce di scambio del potere maschile. La sua persona suscita passioni, vendette, ma nessuno è interessato al suo bene. La sua storia, ambientata in un contesto patriarcale, non è diversa da quella di milioni di donne che, in ogni angolo della terra, vengono aggredite, rapite e violentate.

Dina, una delle figlie di Giacobbe, esce di casa per incontrarsi con le altre ragazze del villaggio. Il momento di svago si trasforma in un incubo, che le cambierà per sempre la vita. Viene vista, rapita e violentata da un ragazzo. Non è un giovane qualunque: è Sichem, il figlio del capo del paese. Costui, dopo aver abusato di lei, se ne innamora perdutamente: la sua anima si legò a Dina, figlia di Giacobbe; egli amò la fanciulla e parlò al cuore della ragazza (Genesi 34,3).

A fronte dei gesti e delle parole di Sichem, il silenzio assordante di Dina lascia presagire il peggio. I fratelli della ragazza, alla richiesta di matrimonio, agiscono con astuzia. Per acconsentire al matrimonio tra un cananeo e una figlia di Israele, chiedono che tutti i maschi del villaggio si facciano circoncidere. Il re e il popolo acconsentono.

Vivono quel gesto come segno di riconciliazione e alleanza tra due popoli. Il terzo giorno, quando i maschi sono ancora doloranti, i figli di Giacobbe attaccano Sichem e il suo villaggio. Uccidono tutti gli uomini, riportano a casa Dina, saccheggiano, rapiscono donne e bambini, stuprano. Secondo la logica del potere maschile, Dina è stata vendicata: “Doveva egli trattare nostra sorella come una prostituta?” (Genesi 34,31).

Si conclude con questa domanda uno dei capitoli più duri della Genesi. Dina esce di scena, precipitando nell’oblio. Merce di scambio tra mondi maschili, pedina dei loro rapporti di forza. Abusata da Sichem e dalla sua stessa famiglia che, incurante dei suoi desideri, l’ha prima usata per stringere un’alleanza e poi come pretesto per saccheggiare e stuprare.

Chi legge rimane sconcertato: per vendicare “l’onore” di Dina si è violato quello di centinaia di donne anonime. Anche il loro silenzio, assieme a quello di Dina, urla: denuncia una storia di violenza maschile, fatta di stupri, di inganni e pretesti per uccidere. Bisogna avere stomaco per ascoltarla. Tutto è stravolto: gli affetti, la religione, la politica, in una catena di violenze che ha come apice il saccheggio e il genocidio.

Dov’è Dio, in questa storia? Non parla, non agisce. È silente. Come Dina, anche Dio viene usato, abusato da Israele per compiere la sua vendetta. La circoncisione, nel linguaggio biblico, rappresenta il patto con Dio scolpito nella carne. Nell’astuzia dei fratelli di Dina, diventa l’arma per uccidere e saccheggiare il nemico.

Il volto di Dio ha tratti simili a quello di Dina: è violentato e silente. Altri lo usano, parlando e agendo in suo nome. Scena-madre di infinite scene-figlie, che accomunano le diverse esperienze religiose. Per difendere il nome di Dio si sono commesse guerre e genocidi. E si continua a farlo. Non per mano di barbari, ma come mossa astuta del popolo eletto; non altrove, ma qui da noi, in nome della nostra fede.

La seconda storia, che può aiutarci a comprendere come la Scrittura tematizzi la violenza contro le donne, è tratta dal libro dei Giudici. Un libro tragico, che narra uno dei periodi più bui della storia di Israele, segnato da giustizia sommaria, disordini e violenze. Il racconto veicola una storia della salvezza al contrario, in cui Dio stesso si stanca di un popolo che riproduce nella terra promessa i medesimi meccanismi oppressivi sperimentati in Egitto.

E non è un caso che, per descrivere il degrado sociale raggiunto da Israele alla vigilia della monarchia, il narratore focalizzi la propria attenzione sulla parte più debole della società: le donne. Esse diventano, loro malgrado, protagoniste della scena della violenza, che narra gli orrori di un popolo dimentico della Torah. Sono loro il metro, la cartina di tornasole che mette in evidenza la corruzione e la decadenza. Nel libro dei Giudici, infatti, incontriamo molte figure femminili.

Al tempo in cui il popolo non aveva un re“: è la collocazione temporale e insieme la cornice entro cui narrare il tradimento della liberazione divina e la violenza dilagante operata dal popolo eletto; un racconto amaramente ironico, coraggiosamente autocritico, che prova a rendere comprensibile l’incomprensibile. Non basta, però, tale cornice a eliminare il senso di disagio che si prova nell’ascoltare queste narrazioni, che mettono a tema una riflessione sulla giustizia umana che non ammette sconti. Senza un governo, gli abusi sono all’ordine del giorno; tuttavia, non basterà un re per garantire la giustizia.

In un clima di violenza e degrado, le donne sono il soggetto oppresso. Soggette a stupri e violenze, soccombono silenti. Così il libro dei Giudici, pur offrendo alcune figure femminili dai tratti forti e colorati – come Deborah, la madre di Sansone, Dalila e, pur nella tragedia, la figlia di Jefte – elenca centinaia di donne silenti che soccombono sotto il giogo del dominio maschile.

Massacrate insieme ai vecchi e ai bambini per vendicare un crimine squisitamente maschile, come lo stupro verso un’innominata concubina di un levita. Fermiamoci su questa storia, apice dell’intero libro e paradigma di una violenza folle: una delle storie più brutali di tutta la Scrittura.

Non è mai accaduta e non si è mai vista una cosa simile, da quando i figli di Israele salirono nel paese d’Egitto” (Giudici 19,30). È questo il commento del narratore alla vicenda che stiamo per affrontare.

Una donna viene stuprata e fatta a pezzi. Protagonista è un levita, un uomo religioso, che si mette in viaggio per andare a riprendersi la sua concubina. La donna lo aveva lasciato, tornando alla casa paterna. Unico atto di autonomia, nella sua breve vita. L’uomo sembra interessato a riaverla con sé; decide, pertanto, di partire con l’intenzione di “parlare al suo cuore” – come fece Sichem con la povera Dina, dopo lo stupro, quando si rese conto di amarla. Le assonanze tra i due testi non sono casuali: non solo per la violenza subita, ma anche perché entrambe le vicende verranno usate come pretesto per muovere guerra ai vicini.

Più che parlare al cuore di lei, però, il levita si intrattiene con il padre della donna. Buona parte della storia è dedicata alla prova di forza tra questi due uomini che, dietro l’apparente questione dell’ospitalità, si confrontano, e misurano la propria capacità di imporre decisioni. La donna è silente, invisibile. Alla fine, il levita la spunta e riesce a mettersi in viaggio con la donna. Essendo ormai tardi, bisogna fermarsi per la notte. Non è bene, tuttavia, fermarsi in un villaggio straniero, come suggerisce il servo. Conviene arrivare fino a Gàbaa, città di Beniamino, una delle tribù di Israele.

La donna non viene consultata. Continua a essere passiva. Nessuno sembra più interessato a parlare al suo cuore e neppure alle sue orecchie. Ironia della sorte, la terra che doveva proteggerli – terra promessa, dove avrebbero dovuto scorrere il latte e il miele di relazioni libere – diventa terra pericolosa, ostile, straniera. Il levita con il servo e la concubina vengono sì ospitati in casa di un anziano; ma, mentre si godono l’ospitalità, ecco che dei pervertiti circondano la casa. Niente di nuovo sotto il sole: lo schema narrativo ricalca quello precedentemente utilizzato nella Genesi: i pervertiti di Sodoma, che assediano la casa di Lot e insidiano i messaggeri del Signore (Gen 19). Tale rimando narrativo rende ancor più tragico il racconto: la violenza abita il popolo eletto; e non c’è nessuno che salvi la concubina del levita, offerta in pasto ai suoi carnefici; nessun angelo che renda ciechi i profanatori.

Gli uomini all’esterno della casa vogliono abusare del levita. Il vecchio che li ospita interviene, facendo appello al sacro vincolo dell’ospitalità. Come Lot, propone di offrire in cambio due donne: la sua giovane figlia e la concubina. Mentre il padrone di casa sta ancora contrattando con i male intenzionati, il levita, lesto, spinge fuori la concubina che viene afferrata e violentata per tutta la notte.

All’alba, quando i pervertiti si dileguano, la donna si trascina sulla soglia della casa e, con la mano tesa verso la porta, crolla a terra esausta. Passerà qualche ora prima che qualcuno si preoccupi di soccorrerla. Il levita, al risveglio, quando il sole è già alto, la trova sulla soglia. Come se niente fosse, le ordina di alzarsi: sono le prime parole che gli sentiamo rivolgere.

Strano modo di parlare al suo cuore! La donna non risponde, non può rispondere. Non c’è nessuno che la soccorra, nessun samaritano che si faccia prossimo ungendola e fasciandole le ferite. Il levita non la soccorre, ma non passa neppure all’altro lato della strada: la carica di peso sull’asino e riprende il viaggio verso casa. Se non è stato lo stupro collettivo a ucciderla, e neppure quell’assurdo viaggio di ritorno, ci penserà il coltello del levita che, in nome della giustizia, taglia il corpo della donna in dodici pezzi da mandare alle dodici tribù di Israele: “Guardate che cosa mi hanno fatto!“. La giustizia reclamata dal levita è quella che intende far valere i propri diritti su una proprietà violata. Sarà questo il pretesto per una guerra civile, per altri stupri e assassini.

Una donna trattata come carne da sfruttare e macellare. Una donna senza nome, perché il suo nome si sovrapponga a quello delle tante donne uccise dai loro compagni per soddisfare una propria parziale giustizia. Il suo corpo tagliato a pezzi è una lettera vivente che ancora attende risposta; è richiesta di giustizia per tutte le donne abusate, uccise e fatte a pezzi.

In questa macabra liturgia, le parole della cena eucaristica – “questo è il mio corpo” – riecheggiano, stravolte dalla violenza, mentre ci chiediamo: dov’è Dio? Perché non ha fermato il coltello del levita, come aveva fatto con Abramo? In questa storia, il personaggio Dio non c’è. E tuttavia possiamo scorgere la presenza divina nel modo con cui questa storia è raccontata, al fine di suscitare in chi legge sdegno e sgomento. Il corpo di una donna è stato stuprato e sezionato; ma ogni parte del suo corpo grida tra le righe del racconto. Grido di denuncia che diventa “parola di Dio”, presenza reale nel corpo spezzato e sbranato dalla belva del patriarcato.

Quanto ci dicono queste storie non ha solo a che vedere con il potere maschile, ma anche con la commistione tra potere civile e religioso, tra violenza e fede. Non esiste spazio di fuga per una donna. Dietro le storie di Dina e della concubina, c’è il bisogno di rivisitare il sacro e denudarlo dal potere patriarcale. In nome di una pretesa conversione al Dio di Israele, per poter entrare nell’alleanza, i sichemiti sono stati circoncisi e resi vulnerabili per poterli dominare.

Nella vicenda della concubina, per una deformata idea dell’ospitalità, una donna è stata data in pasto ai suoi carnefici e poi sezionata per un altrettanto deformato senso della giustizia. E il sacro e il giusto deformati, sono quelli del popolo eletto, dei credenti chiamati a vivere la “differenza” che rivendicano in nome della fede abbracciata.

Il rimando al popolo di queste storie, poi, evoca la dimensione comunitaria, che interroga le chiese stesse. Il problema non è solo la poca attenzione nelle comunità cristiane a promuovere cammini di consapevolezza maschile sulla violenza commessa dagli uomini sul corpo delle donne. È anche l’insufficiente rivisitazione critica di un modo di fare teologia, di discernere il senso della Parola nella storia, incapace di disarmare la violenza, persino quella perpetrata dai credenti.

Come ci mostra la sapienza narrativa delle Scritture – peraltro, sorprendentemente maturata in regime patriarcale – la violenza sulle donne non è semplicemente una questione circoscritta a episodiche situazioni. Abbiamo, piuttosto, a che fare col caso serio del cantiere “umanità”, col sogno di Dio di un’umanità a sua immagine e somiglianza, in grado di abitare la terra in modo differente e di sottrarsi alla tentazione di usare Dio – di nominarlo invano – per fini ingiusti.

Insieme alla narrazione utopica del giardino – di Eden, del Cantico dei cantici, della resurrezione – la Bibbia offre la narrazione distopica del sogno tradito e violentato, dove le donne, messe brutalmente a tacere, ritrovano la voce perduta e urlano agli orecchi dei lettori-credenti la tragedia di cui sono vittime, perpetrata persino in nome della fede.

Se questa è una donna! Se questo è un uomo! Se questa è fede!

 

Articolo di Lidia Maggi pubblicato sulla rivista “Esodo” n. 4 di Ottobre-Dicembre 2019.

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