Recenti provvedimenti del governo verde-giallo nazionale, soprattutto in tema di gestione dei flussi migratori, hanno riaperto la questione del rapporto fra fede cristiana e scelte politiche. La sovrabbondanza di mezzi espressivi, soprattutto via internet, ha favorito la proliferazione di risposte secche, sloganistiche: come è noto, le peggiori a domande complesse. Può un politico – col consenso di parte consistente del proprio elettorato – dirsi credente nel vangelo e decidere che “a casa propria” non entri più nessuno, neppure se assillato davvero dalla guerra, dalla fame o ‘soltanto’ dal desiderio (comune a moltissimi ragazzi italiani all’estero) di avere un lavoro dignitoso a condizioni economiche eque?
Quanti rispondono affermativamente si inseriscono, con maggiore o minore consapevolezza storica, in una tradizione antica almeno quanto gli imperatori Costantino (IV secolo) e Carlo Magno (IX secolo) e protrattasi sino ai nostri giorni con la Democrazia cristiana e Berlusconi: la tradizione di chi abbraccia, anzi imbraccia, i simboli cattolici come bandiere identitarie da sventolare in faccia a chi è “straniero”, “pagano”, “diverso”… A protestare per prima, contro questa strumentalizzazione della croce, dovrebbe essere la Chiesa cattolica: in nome della propria dignità e, soprattutto, di quel Gesù che, secondo san Paolo, avrebbe abbattuto le barriere sociali, etniche, sessuali a favore di una fraternità e di una sororità che fa avvertire la sofferenza dell’altro come la propria.
Qualche vescovo lo fa, qualche prete pure; ma altri vescovi, altri preti e soprattutto altri fedeli preferiscono – contro la testimonianza dello stesso papa Francesco – cavalcare le mode razziste e xenofobe. Allora, l’unico atteggiamento valido sarebbe – all’opposto – contestare le leggi dello Stato in nome della propria opzione di fede evangelica? Correre il rischio dell’integralismo pur di evitare la schizofrenia fra ciò che si proclama a messa la domenica e ciò che si vive nei sei giorni restanti della settimana?
Personalmente ritengo che ci si debba muovere con ponderazione, con cautela. Se un provvedimento legislativo o amministrativo fosse contro un insegnamento valido esclusivamente per fede, nessun cittadino avrebbe il diritto di contestarlo con la disubbidienza civile. Diverso il caso in cui si tratti di leggi che colpiscono l’etica cristiana non in quanto cristiana ma in quanto etica umana. Certo, non è facile stabilirlo: ma quando, con ragionevole probabilità di interpretare correttamente, si arriva alla conclusione che un atto di governo mortifica la “regola aurea” del “non fare ad altri ciò che non vorresti fosse fatto a te” – regola che è anche biblica, ma non solo tale: la si ritrova in tutte le sapienze e le culture della Terra – allora il cristiano ha il diritto, e il dovere, di ribellarsi non in nome dell’etica cristiana ma in nome dell’etica universale.
Il “Decreto Sicurezza” approvato a maggioranza dal Parlamento e entrato in vigore in questi giorni, a cavallo fra il 2018 e il 2019, rientra fra le violazioni dei diritti civili stabiliti dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e dalla Costituzione italiana? Questo è il punto. Se sì, ogni resistenza è d’obbligo per il credente. Se no, per il credente sarà altrettanto legittimo approvarlo o dissentirne democraticamente.
La questione allora si sposta dal piano teologico al piano delle analisi filosofiche, delle opzioni etiche, delle considerazioni politiche, delle argomentazioni giuridiche. Non si può rispondere affrettatamente, lanciando urla in un senso o in un altro, senza basarsi né su dati oggettivi né su riflessioni razionali. Personalmente sono convinto che nella politica della Lega in tema di gestione dell’immigrazione – politica assecondata, da alcuni parlamentari pentastellati, per obbligo di “contratto” e, da altri, per convinta adesione – si rifletta una visione dell’uomo, della società, della storia davvero miope. Sono convinto che gli errori sulla stessa questione compiuti dai governi precedenti di centro-sinistra, e perpetrati tuttora da un’Europa senz’anima, siano molti e gravi (soprattutto quando si è delegato alla Libia e alla Turchia il ruolo di vigilantes del Mediterraneo e a una pletora di affaristi il compito di accogliere e gestire chi arrivava a toccare le nostre sponde), ma che non giustifichino i più gravi ancora realizzati da questo governo.
Statisti che fossero più che politicanti in perenne questua di consensi non giocherebbero sulle dimensioni “percepite” del fenomeno immigratorio, trascurando o celando le molto più modeste dimensioni “effettive”. Non direbbero “Aiutiamoli a casa loro” senza nel contempo rafforzare le forme di cooperazione internazionale con le popolazioni degli Stati africani, asiatici e sudamericani. E, nell’attesa che migliorino le condizioni in Paesi davvero devastati, adotterebbero e incrementerebbero quei “corridoi umanitari” che, grazie all’iniziativa di alcune chiese e di alcune organizzazioni di volontariato, stanno permettendo a centinaia di persone di raggiungere l’Europa in forme legali e sicure.