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L’umanesimo di Cristo (commento al Vangelo di Natale)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

ANNO C, 25 dicembre 2018, NATALE; Is 9,1-6; Sal 95; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14

Per lo più il Natale dipinge di sentimenti il consueto consumismo e, se facciamo un gesto di carità, ci fa sentire anche più buoni. L’essenziale rimane sullo sfondo, in oblio, dà troppo da pensare e oggi ne abbiamo perso l’abitudine. Il cristianesimo non è un umanesimo, questo è frutto del pensiero umano, da Pico della Mirandola e Erasmo da Rotterdam al personalismo contemporaneo, mentre il cristianesimo nasce dall’ispirazione di Dio ed esprime non un concetto, ma una persona e la sua parola. Tuttavia il Dio che si incarna e condivide la nostra condizione umana necessariamente si esprime alla maniera umana, usa il nostro linguaggio, si comporta alla stessa nostra maniera, vive nel nostro mondo e prende parte alla nostra storia. Questo significa che nel cristianesimo si può parlare di Dio solo con le categorie umane, a differenza di tutte le altre religioni racchiuse nell’orizzonte del sacro (qadosh che significa separato) dove Dio, estaticamente immobile nella sua sublime e irraggiungibile santità, chiede il sacrificio dell’umano. Pensare il cristianesimo alla stregua delle altre religioni significa snaturarlo. Ciò che dalle altre religioni è entrato nel cristianesimo nel corso della storia, oggi, alla nostra sensibilità più critica appare con evidenza estraneo e incoerente. Non si può usare un linguaggio sacrale e trionfalistico nelle preghiere rivolte a un Dio fatto uomo e morto in croce a fianco di tutta la storia della sofferenza umana.

Il Cristianesimo opera una inversione di prospettiva nel concepire il rapporto tra Dio e l’uomo. Nelle metope del Partenone gli uomini, affaticati sotto il peso dei doni da offrire, percorrono processionalmente la salita dell’Olimpo dove gli dei, seduti sui loro troni, con il volto disteso e soddisfatto, attendono il tributo dei miseri umani. Anche nell’esperienza religiosa ebraica Dio esige un tributo di lode e la sottomissione ai suoi precetti. Nell’iconografia cristiana Dio sta sulla croce, in mezzo ad altri uomini espulsi dalla società perché feccia inaccettabile. Nel giudizio finale nulla esige per sé, si preoccupa solo di quanto è stato fatto per l’uomo sofferente, affamato, assetato, malato; le beatitudini sono la sua scelta di campo tra quanti sperimentano il peso dell’ingiustizia… Dio lo si incontra sulla strada di Gerico accogliendo l’uomo ferito e non nel tempio anche se vi si entra con l’orgoglio delle mani libere da ogni impurità, per non averle sporcate con il sangue delle ferite umane. Il Dio cristiano lascia libero il figlio di andarsene da casa con il suo patrimonio e nell’assenza non prepara la punizione vendicativa, ma nutre in cuore la speranza del suo ritorno per poterlo riabbracciare. In contrapposizione al carico di precetti della religione codificata, pesante fardello che la casta sacerdotale impone sulle spalle del popolo stanco e oppresso, Gesù propone la sua sequela soave e leggera. Non si fa scrupolo di trasgredire le norme della legge per offrire una possibilità di riscatto alle persone. Entra in casa dei pubblicani, Zaccheo e Levi, si mette a tavola con loro contraendo l’impurità, ma la sua presenza genera un cambiamento radicale nell’orientamento della vita, si lascia toccare dall’emorroissa, tocca il lebbroso prima di guarirlo, si lascia bagnare i piedi dalle lacrime della peccatrice, in pubblica piazza si intrattiene con l’adultera e la difende dai suoi accusatori. La sua preoccupazione non è l’osservanza della legge, troppo spesso disumana con i poveri, ma le persone nel loro bisogno di riscatto.

Purtroppo le nostre prediche e il sottofondo mentale del nostro popolo rimpiccioliscono il mistero del Dio fatto uomo nella poesia del bambino povero, cercando di suscitare un alone di sentimenti. I primi cristiani, da bravi israeliti, si recavano ogni giorno al tempio per pregare, ma, come cristiani, spezzavano il pane a casa dove l’uomo vive, lavora, ama e costruisce il proprio destino, liberi dalle preoccupazioni della ritualità e dall’incubo dell’autorità, eguali come fratelli. Poi è arrivato il capestro dell’organizzazione religiosa.

 

don Vittorio Mencucci, Adista Notizie n° 41 del 01/12/2018

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