mercoledì, Dicembre 18, 2024

Omicidio Cucchi, genesi di un depistaggio: «Magari morisse, mortacci sua»

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Le carte modificate per coprire le responsabilità, la necessità di evitare brutte figure all’Arma in un momento difficile e per non distruggere le carriere. E una frase shock. Ecco cosa dicono i nuovi atti in mano alla procura

“Magari morisse, li mortacci sua”. Così parlò il carabiniere la notte dell’arresto di Stefano Cucchi. Il militare si chiama Vincenzo Nicolardi, al processo è imputato per calunnia. E nel 2009 proferisce queste parole mentre dialoga con il capoturno della centrale operativa del comando provinciale tra le 3 e le 7 del mattino del 16 ottobre. Nei dialoghi si fa riferimento alle condizioni di salute del geometra 31enne che era stato arrestato poche ore prima e si trovava nella stazione di Tor Sapienza.

Questo è solo uno dei dettagli che emerge dagli ultimi atti depositati dal pm Giovanni Musarò nel corso del processo bis sulla morte di Stefano Cucchi. Perché in realtà nell’aula della Corte d’Assise di Roma sta accadendo qualcosa di impensabile fino a qualche anno fa. Il muro di omertà che per nove anni ha coperto i colpevoli del pestaggio di Stefano Cucchi continua a sgretolarsi. Granello dopo granello, udienza dopo udienza, la muraglia dei silenzi si sta assottigliando.

L’ultima udienza del processo bis sulla morte del geometra romano ha restituito un altro tassello di verità, per troppo tempo nascosta volontariamente in un labirinto costruito ad hoc fatto di verbali modificati e depistaggi architettati dalla scala gerarchica che comandava i carabinieri coinvolti direttamente nell’arresto di Cucchi e poi nel pestaggio. E ora della nuova indagine sui responsabili dell’occultamento delle prove che dimostrerebbero come andarono davvero le cose quella notte si sanno diverse cose.

Si sa, per esempio, che sono almeno sei le persone indagate nel nuovo filone in cui si ipotizza il reato di falso. Cinque carabinieri e un avvocato. Tra i militari dell’Arma c’è anche il tenente colonnello Francesco Cavallo, all’epoca capo ufficio comando del Gruppo carabinieri Roma, un ufficio di rilievo nella gerarchia. Secondo quanto emerge dalle nuove carte sarebbe stato Cavallo a suggerire al luogotenente Massimiliano Colombo – comandante della stazione Tor Sapienza anche lui sotto inchiesta – di effettuare modifiche all’annotazione di servizio sullo stato di salute di Cucchi.

Gli altri indagati sono il carabiniere scelto Francesco Di Sano, sempre di Tor Sapienza, il maresciallo Roberto Mandolini– comandante della stazione Appia e tra i cinque militari imputati in corte d’assise- e il tenente colonnello Luciano Soligo, già comandante della compagnia Talenti Montesacro. Tra gli indagati c’e’ anche l’avvocato Gabriele Giuseppe Di Sano.

Il coinvolgimento di Cavallo in questa vicenda è legato a una mail esibita in sede di interrogatorio da Massimiliano Colombo cui Cavallo avrebbe suggerito le modifiche da apporre all’annotazione di servizio sulla salute di Stefano Cucchi. Ma dai nuovi atti depositati dal pm Musarò emerge ancora più evidente la pista delle responsabilità più alte. Seppure estranei all’indagine, i generali superiori dei militari finiti nell’inchiesta sul depistaggio ne escono male. Le intercettazioni degli indagati in questo senso sono significative.

Una in particolare apre scenari inediti. Si tratta di una conversazione tra Francesco Di Sano e il suo legale, Giuseppe Di Sano. «Francesco ( Di Sano ndr), ascoltami, io quello che penso ora per telefono non te lo posso dire, ma tu queste cose per ora, conservatele, anche perché … incomprensibile … però se tutto va come spero io, ste cose, ci serviranno dopo … (.) … per ricattare l’Arma, per che non vorrei che, se tutto va come penso io … bene, cioè che tutto si chiude e l’Arma ti dice ah guarda comunque tu per noi non puoi stare qua’ no?! Allora, io ho queste cose in mano, che fate? mi fate restare o vado al giornale? .. hai capito? .. (.) .. conservale gelosamente».

Ricattare chi e su cosa? Per gli ordini ricevuti per modificare le annotazioni su Cucchi? Di certo, quei documenti sono da conservare gelosamente e da usare in casi estremi, come nel caso di un procedimento disciplinare a carico del carabiniere Di Sano.

Del resto l’Arma in quel periodo non poteva permettersi clamori, sostengono gli indagati intercettati. Il motivo, ipotizzano gli indagati, è semplice: subito dopo la morte di Cucchi è emersa l’estorsione di alcuni carabinieri ai danni dell’ex presidente della regione Piero Marrazzo: «È successo subito dopo pure il caso Marrazzo, che c’era successo, capito in quello pure erano coinvolti i carabineiri, mi spiego?». Gli investigatori della Squadra mobile che stanno indagando sul caso Cucchi confermano la consequenzialità degli eventi. E nelle loro informative scrivono: «Difatti, il 23 ottobre 2009, ossia il giorno successivo alla morte di Stefano Cucchi, quattro carabinieri della Compagnia Roma Trionfale, sono stati arrestati dai carabinieri del R.O.S., a seguito di un’attività d’intercettazione telefonica, con l’accusa di aver ricattato, a scopo estorsivo, il presidente della Regione Lazio, perché in possesso di un filmato di Marrazzo in compagnia di un transessuale».

«L’Arma che ci tiene alla sua immagine, voglio dire, perché dovete ingenerare dei pensieri sbagliati? E fa correggere le due annotazioni», commenta un secondo indagato. Insomma, se così fosse la verità su Cucchi sarebbe stata tenuta nascosta per evitare altre figuracce? E magari per non sporcare la carriera di ufficiali lanciatissimi. Un’ipotesi tra le altre, di certo i carabinieri semplici finiti nei guai in questo secondo filone non ci stanno a pagare per tutti. Anche perché, ribadiscono nei loro dialoghi, hanno obbedito a un ordine. A quale ordine? Di chi? E da chi è partito?

Su questo punto è netto Massimiliano Colombo: «Se hanno indagato me allora dovranno indagare Cavallo, dovranno indagare Casarsa, dovranno indagare Tomasone». Cavallo è il capo ufficio del gruppo carabinieri Roma attualmente sotto inchiesta; Alessandro Casarsa è invece l’ex comandante della compagnia Casilina, tra le più importanti della Capitale con una competenza in un territorio dove vivono 800 mila persone, oggi comandante dei Corazieri al Quirinale; Vittorio Tomasone era il comandante provinciale di Roma. Tomasone e Casarsa nel 2018 sono diventati generali.

Ma torniamo alla scala gerarchica. Dai nuovi atti depositati dal pm Musarò è ormai certo che l’ordine di modificare le carte è partito dai superiori. Che ruolo ha giocato la riunione del 30 ottobre 2009 al comando provinciale, una settimana dopo la morte di Cucchi? L’incontro ritorna spesso nei racconti degli indagati. Erano presenti i comandanti delle stazioni dalle quali era passato Cucchi, il generale Tomasone e il colonnello Alessandro Casarsa. Assente, invece, Francesco Cavallo. Di quell’incontro non c’è alcun verbale, niente di scritto. Quella riunione – che a detta di uno degli indagati sembrava una riunione degli «alcolisti anonimi» – non produsse alcun risultato. Ma la sensazione, rileggendo i verbali di interrogatorio, è che ora il summit con i generali e i colonnelli sia al centro di approfondimenti investigativi. Perché sul vertice convocato d’urgenza il 30 ottobre, le domande del pm, sia nelle passate udienze che negli interrogatori dei nuovi indagati, sono insistenti.

Chi era presente quel giorno ha risposto così: «Ognuno, a turno, si alzava in piedi e parlava spiegando il ruolo che aveva avuto nella vicenda in cui era stato coinvolto Stefano Cucchi. Ricordo che uno dei Carabinieri di Appia che aveva partecipato all’arresto di Stefano Cucchi aveva un eloquio poco fluido, e un paio di volte intervenne il maresciallo Mandolini (oggi tra gli imputati ndr) per integrare cosa stava dicendo e per spiegare meglio, come se fosse un interprete. Ad un certo punto il Col. Tomasone zittì Mandolini dicendogli che il Carabiniere doveva esprimersi con le sue parole perché, se non fosse stato in grado di spiegarsi con un superiore, certamente non si sarebbe spiegato neanche con un magistrato».

Il giorno prima della riunione al comando provinciale, il magistrato dell’epoca che seguiva il caso Cucchi aveva sentito nel suo ufficio alcuni dei militati coinvolti nella vicenda. Ma è dopo quattro mesi quella riunione alla presenza dei vertici romani dell’Arma che accade un altro misterioso fatto. Che verrà scoperto solo nell’ultima inchiesta aperta dalla procura di Roma. Si tratta di un documento “riparatore”. Due le firme, una è di Di Sano. È datato febbraio 2010, 120 giorni dopo la morte di Cucchi. In questa annotazione gli appuntati scrivono che il ragazzo si è rifutato di firmare il registro «riservato agli arrestati». Un fatto che è smentito dalle testimonianze nel processo in corso.

Dunque anche questo documento presenta delle inesattezze, che messe insieme compongono la tela del depistaggio che ha portato al primo processo i cui imputati erano gli agenti della polizia penitenziaria, poi assolti dalle accuse. Francesco Di Sano successivamente è stato promosso. Si è guadagnato la fiducia dei vertici militari. Ha lasciato la caserma di Tor Sapienza qualche mese dopo aver redatto l’ultima relazione sul caso che rischiava di travolgere l’Arma. Per una curiosa coincidenza è finito a fare l’autista del comandante provinciale, il generale Tomasone, che da lì a breve avrebbe salutato Roma per dirigere il comando regionale dell’Emilia Romagna.

Non sono stati promossi, invece, a i due carabinieri che hanno testimoniato. A Francesco Tedesco è stato notificato un procedimento di Stato lo stesso giorno in cui si è presentato in procura per collaborare con il pm. Rischia la destituzione a causa del processo in cui è imputato. L’altro, Riccardo Casamassima, il primo a rompere il muro di silenzio, attraverso il suo legale sostiene di essere stato demansionato. Prima è stato trasferito nella stessa caserma del maresciallo che aveva accusato. E poi è stato messo a fare il piantone nella scuola di formazione. Un’umiliazione per uno “sbirro” di strada con alle spalle importanti sequestri di droga.

(Giovanni Tizian, l’Espresso, 24 ottobre 2018)

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