Gli operai un tempo erano solidali tra loro: oggi invece i poveri si odiano a vicenda. Ed è qui la sfida. Parla il regista degli sfruttati
Il regista britannico Ken Loach, 82 anni, è una delle voci cinematografiche più celebri del nostro tempo e uno dei pochi registi a cui è stata assegnata la Palma d’oro due volte. Artista da sempre impegnato, si occupa spesso di temi sociali e politici. La sua opera ha abbracciato la guerra civile spagnola (“Terra e libertà”, 1995), lo sciopero dei bidelli di Los Angeles (“Il pane e le rose”, 2000), l’occupazione dell’Iraq (“L’altra verità”, 2010), la guerra d’indipendenza irlandese (“Il vento che accarezza l’erba”, 2006) e il lato coercitivo – quasi disumano – dello stato sociale che non c’è più (“Io, Daniel Blake”, 2016). Se oggi la “rivolta populista” ha innescato un ampio dibattito sul ruolo delle disuguaglianze economiche e dell’esclusione sociale, Ken Loach è stato uno dei più grandi narratori della coscienza della classe operaia e della sua graduale trasformazione nei decenni del neoliberismo. Il colloquio è stato registrato durante le riprese di “Demos” un documentario internazionale di prossima uscita, girato dal regista italiano Berardo Carboni, in cui l’autore di questa intervista attraversa l’Europa alla ricerca dei germogli di un’alternativa politica ed economica in occasione del decimo anniversario dalla crisi finanziaria del 2008.
Loach, stiamo attraversando un momento di grande trasformazione  geopolitica e di disorientamento globale. Il suo lavoro è sempre stato  considerato politicamente impegnato: quale pensa possa essere il ruolo  che la creatività può svolgere in un momento come questo?
 
«In generale penso che nell’arte si abbia solo la responsabilità di dire  la verità. Ogni frase che inizia con “l’arte dovrebbe” secondo me è  sbagliata perché si basa sull’immaginazione o la percezione delle  persone che scrivono o dipingono. Penso ci siano diversi ruoli che  l’arte può svolgere. Uno di questi è affermare i principi fondamentali  del modo in cui le persone possono vivere insieme. Il ruolo di  scrittori, intellettuali e artisti è quello di considerare i principi  fondamentali. Si tratta di portare una visione di lungo periodo della  storia, della lotta. E anche se potrebbe essere necessario fare un  ritiro tattico, è importante essere consapevoli che si tratta pur sempre  di un ritiro, mentre i principi fondamentali sono quelli che dobbiamo  tenere a mente. Questo è qualcosa che possono fare coloro che non sono  coinvolti nel logorio della politica quotidiana».
Nel suo lavoro l’elemento umano non appare semplicemente come  un’illustrazione della teoria, ma incarna e diventa realmente il  politico. L’arte ha il potere di dimostrare che, alla fine, ci sono  persone reali dietro ai grandi processi economici e politici?
 
«La politica vive nelle persone, le idee vivono nelle persone, vivono  nelle lotte concrete che le persone fanno. Determina anche le scelte che  abbiamo – e le scelte che abbiamo a nostra volta determinano il tipo di  persona che diventiamo. Il modo in cui interagisce una famiglia non è  un concetto astratto di madre, figlio, padre, figlia, ma ha a che fare  con le circostanze economiche, il lavoro che svolgono, il tempo che  possono trascorrere tra loro. L’economia e la politica sono legate al  contesto in cui le persone vivono, ma i dettagli di quelle vite sono  molto umani: spesso molto divertenti o molto tristi – e in generale  pieni di contraddizione e complessità. Per gli scrittori con cui ho  lavorato e per me il rapporto tra la commedia personale del quotidiano e  il contesto economico in cui quella vita si svolge è sempre stato molto  significativo».
È chiaramente una relazione dialettica: il cambiamento economico  trasforma il comportamento umano e il comportamento umano, soprattutto  attraverso l’azione collettiva, trasforma le relazioni economiche.
 
«Pensi a un lavoratore. La sua famiglia funziona o cerca di funzionare,  ma individualmente non ha forza perché non ha potere. È semplicemente  una pedina di una determinata situazione. Ma penso che il senso di forza  collettiva sia qualcosa di molto importante. È qui che diventa  difficile. Non è facile raccontare una storia in cui la forza collettiva  è immediatamente evidente. D’altra parte, è spesso rozzo e sciocco  finire ogni film con un pugno nell’aria e un appello militante  all’azione. Questo è un dilemma costante: come si fa a raccontare la  storia di una famiglia operaia, tragicamente distrutta dalle circostanze  economiche, ma senza abbandonarsi alla tristezza e all’impotenza?
C’è infatti una componente di speranza anche in un film  sostanzialmente cupo come “Io, Daniel Blake”. C’è la resilienza di una  solidarietà umana, i poveri che si aiutano a vicenda, la gente che  applaude quando Daniel Blake scrive sul muro del centro per l’impiego.  Insomma, una resistenza verso la mercificazione della vita umana. Forse è  un punto da cui partire.
 
«Sì e questo è qualcosa che i commentatori borghesi non comprendono: i  lavoratori non smettono di mettere in questione il sistema, di farsene  gioco. Nelle trincee e in guerra c’è una commedia amara ed è qui che  vediamo il senso di resistenza, anche nei luoghi più bui. E poi c’è la  solidarietà, il sostegno reciproco e la generosità di spirito. Ad  esempio, qui in Gran Bretagna abbiamo avuto una crescita vertiginosa  delle “food banks”, i supermercati popolari dove viene fornito cibo  gratuito. In “Io, Daniel Blake”, quando la donna distribuisce il pacco  di cibo a una donna che non ha niente, non dice “ecco il tuo cibo  caritatevole”, ma dice “posso aiutarti con i tuoi acquisti?”. Ma se da  un lato c’è questa generosità, dall’altro c’è lo Stato, che spesso si  comporta nel modo più crudele possibile, sapendo che sta spingendo le  persone alla fame. Le nostre società sembrano un Giano bifronte. La  società capitalista si trova in questa situazione schizofrenica e  dipende da noi organizzare la solidarietà».
Spesso sembra infatti che l’alienazione economica si sia trasformata  in un’alienazione verso il nuovo volto dello Stato: uno Stato che non  protegge più, ma che punisce soltanto. Pensa che questo sia parte di  fenomeni come l’ascesa del nazionalismo, della xenofobia, persino della  Brexit?
 
«Sì, credo che l’umore che il populismo di destra realmente indica sia  un fallimento della sinistra, in modo simile a quanto avvenuto negli  anni Venti e Trenta del secolo scorso, qui in Europa. I partiti di  destra entrano in scena con una risposta molto semplice: il problema è  il tuo vicino, il tuo vicino è di un colore diverso, il tuo vicino  cucina cibi che hanno un odore diverso, il tuo vicino ti prende il  lavoro, il tuo vicino entra in casa tua. Il pericolo è che questa  retorica sia sostenuta dalla stampa di massa, dalle televisioni, dai  media vecchi e nuovi».
Il suo lavoro ha sempre investigato la solidarietà fra lavoratori. Ma  come è cambiata questa solidarietà di classe? Ha vissuto di persona la  transizione dal capitalismo sociale del dopoguerra all’arrivo e trionfo  del neoliberismo. Come ha visto la solidarietà trasformarsi in questo  periodo?
 
«La cosa più importante è stata la riduzione del potere dei sindacati.  Negli anni Cinquanta e Sessanta erano forti perché le persone lavoravano  in organizzazioni sociali come fabbriche, miniere o porti e a quel  punto era più facile organizzarsi. Ma quelle vecchie industrie sono  scomparse. Oggi le persone lavorano in modo molto più frammentato. E se è  vero che siamo più forti quando siamo in grado di fermare la  produzione, se non siamo organizzati al punto di produzione siamo  sicuramente più deboli. Il problema è che la produzione è ora molto  frammentata e con la globalizzazione la nostra classe operaia è sparsa  fra Estremo Oriente e America Latina».
I lavoratori di Deliveroo o Foodora su una bicicletta potrebbero non considerarsi nemmeno lavoratori.
 
«Sì, o aprono un franchising, o sono cosiddetti lavoratori autonomi. È  un problema enorme. È una questione di organizzazione per la nuova  classe operaia».
Pensa che il concetto di classe abbia ancora senso? Molte persone non si considerano classe operaia anche se sono poveri…
 
«Credo che la classe sia fondamentale. Semplicemente, cambia forma  seguendo le richieste di capitale per un diverso tipo di forza lavoro.  Ma ancora di forza lavoro si tratta. E viene ancor sfruttata, e sta  ancora fornendo valore aggiunto, anche più di prima. Se non capiamo la  lotta di classe non capiamo nulla».
È una delle grandi sfide di oggi: far ripartire una dinamica di  conflitto partendo da un popolo frammentato che non si concepisce come  parte dello stesso gruppo.
 
«È una sfida per la nostra intelligenza. Mi ricorda una storia  divertente. Recentemente stavo parlando con alcune persone molto gentili  in Giappone e insistevo sulla necessità di capire la classe e il  conflitto. Una donna molto gentile mi ha detto: “Mostreremo il tuo film  ai funzionari del governo giapponese”. Le ho chiesto il perché. E lei:  “Beh, per fargli cambiare idea”. Al che ho risposto: “Ma questo è il  punto che ho appena fatto! Non cambieranno idea, si impegnano a  difendere gli interessi della classe dirigente. Non devono essere  persuasi, devono essere rimossi!”. È un punto molto difficile da  affrontare quando l’idea di far funzionare il sistema è così  profondamente radicata. Questa è una delle terribili eredità della  socialdemocrazia che dobbiamo combattere».
Si tratta di una forma efficace di controllo sociale, quando i tuoi  sottoposti credono di poterti parlare e che tu prenderai in  considerazione le loro preoccupazioni.
«Per questo motivo dobbiamo rilanciare l’intera idea di richieste  transitorie. Dobbiamo avanzare richieste che siano assolutamente  ragionevoli ma che siano basate sugli interessi della classe lavoratrice  e che quindi non possano venire accettate. Così si possono  smascherare».
Ad esempio, chiudere i paradisi fiscali sembrerebbe una richiesta molto ragionevole
 
«Esatto, ma non lo possono fare!».
 
Una volta lei si è candidato per le elezioni del Parlamento europeo…
 
«L’avevo dimenticato».
Qui in Inghilterra l’Europa non è mai stata molto dibattuta come ora,  dopo la Brexit. Pensa che vi siano ancora speranze di costruire una  democrazia transnazionale o che sia troppo tardi?
 
«Non conosco la risposta. Tuttavia, ritengo che la solidarietà  internazionale sia chiaramente importante. Non so se può essere  organizzata in Europa. La struttura dell’Unione europea è davvero così  difficile, è difficile capire come introdurre il cambiamento senza fare  tabula rasa. Ogni cambiamento deve essere approvato da ogni governo e  sappiamo tutti quanto sia difficile la fattibilità di tale processo.  Chiaramente, abbiamo bisogno di un’Europa diversa, basata su principi  diversi: sulla proprietà comune, sulla pianificazione, sulla  sostenibilità e in generale sul lavoro per l’uguaglianza. Ma non  possiamo farlo mantenendo al centro il profitto e l’interesse delle  grandi aziende. Effettuare tale cambiamento va oltre le mie capacità.  Yanis Varoufakis mi assicura che può essere fatto. Sono sicuro che ha  ragione. Mi fido di lui, ma non so come». 
(Lorenzo Marsili, l’Espresso, 04 settembre 2018)
