Il reportage dalla città che ha resistito all’Isis continua. Approfondiamo il ruolo della donna, dalla visita all’Accademia intitolata alla prima ragazza uccisa in combattimento all’incontro con la comandante del distretto militare.
“Jin! Jiyan! Azadi!”. Donne, vita, libertà. Lo slogan viene scandito mescolandosi al trillo fatto con le lingue (lo stesso suono che nel film La battaglia di Algeri segna l’inizio dell’insurrezione finale contro i francesi) mentre la madre di Silan Kobane, la prima ragazza della città caduta in combattimento, taglia il nastro dell’accademia dedicata alla memoria della figlia.
L’accademia delle donne è un centro di formazione politica, culturale e lavorativa per le donne della città, gestito dalla Kongreya Star, la confederazione delle organizzazioni femminili rivoluzionarie. È un grande edificio rettangolare di tre piani, costruito con la pietra bianca abbondante in questa zona.
La costruzione è stata seguita da Uiki, l’Ufficio Informazione del Kurdistan in Italia e finanziata con l’8 per mille della Tavola Valdese e dalla Provincia Autonoma di Bolzano, dove per ovvie analogie storiche l’interesse per l’ “Autonomia democratica” del Rojava è forte, tanto che nel 2017 all’Eurac di Bolzano è stato organizzato un convegno internazionale in proposito.
Arjin, la responsabile dell’accademia, dice che la gente di qui chiama già l’Accademia “Il castello delle donne”. Al taglio del nastro segue un piccolo rinfresco, preceduto da un minuto di silenzio in ricordo dei caduti che finisce con un altro slogan della rivoluzione, questa volta non urlato ma sussurrato come un amen “sehid namirin”, i martiri non muoiono.
Qui non è retorica, il lascito dei caduti è visibile nel centinaio di donne di tutte le età che si sono radunate per questa cerimonia. La madre di Silan Kobane indossa il velo bianco tradizionale delle donne curde e quando prende la parola dice: “Mia figlia è stata solo la prima, dopo ci sono state molte altre cadute e sappiamo che ce ne saranno ancora molte”. La rivoluzione non è un pranzo di gala.
Dopo di lei parlano le responsabili italiane del progetto, Carla Centioni e Patrizia Fiocchetti, assieme alle numerose rappresentanti delle istituzioni locali e delle associazioni femminili. Il portato più visibile della rivoluzione è infatti il protagonismo delle donne.
In occidente è stato molto mediatizzato il ruolo delle combattenti Ypj, ed effettivamente come ci ha detto la comandante del distretto militare di Kobane, Delbirin Kobane (evidentemente un nome di battaglia) il Rojava è il primo posto al mondo in cui le donne hanno raggiunto i massimi vertici di una forza armata.
Ma oltre a questo aspetto c’è molto altro, c’è una pratica quotidiana di emancipazione che coinvolge donne di tutte le età, dalle ragazzine in camicetta e jeans alle madri di famiglia con abito lungo e velo. In ogni comune esiste un comitato delle donne che si riunisce una volta a settimana, ogni mese le delegate di questi comitati si riuniscono in un’assemblea municipale per trattare i problemi comuni e condividere le esperienze.
Vi è poi una fitta rete di associazioni e movimenti femminili che gestiscono anche pezzi di quello che in Europa chiameremmo welfare, attraverso l’assistenza agli orfani, alle donne vittime di violenza e alle famiglie bisognose. Le amministrazioni di città e villaggi destinano il 10 per cento dei loro fondi proprio a queste organizzazioni.
Tutto questo non c’entra nulla con l’“occidentalizzazione”. Le rivoluzionarie del Rojava non vogliono diventare una copia delle donne occidentali ma costruire una propria via all’emancipazione, contrapposta sia al patriarcato (con il suo portato di matrimoni combinati, poligamia e segregazione) che al capitalismo.
L’emancipazione da queste parti non vuol dire acquisire l’approccio occidentale alla sessualità, qui visto come mercificazione del corpo della donna. Non significa neppure separazione tra i sessi. Le associazioni, le accademie, i comitati e i reparti di guerrigliere non servono a creare un mondo separato da quello degli uomini, ma a dare alle donne la forza di vivere nello stesso mondo degli uomini da pari a pari.
La portata di questa rivoluzione la si vede nei piccoli gesti quotidiani. Ad esempio nel Kurdistan iracheno, con tutta la sua esibita occidentalizzazione di facciata (grattacieli, hotel, grandi insegne pubblicitarie) ho visto un’ impiegata della frontiera con un velo striminzito appena appoggiato sulla nuca e i sandali tacco 12 ritrarsi scandalizzata davanti all’idea di stringere la mano ad un uomo.
In Rojava vige invece l’abitudine di stringere la mano a tutti i presenti in una stanza, uomini e donne, anche quelle velate “sul serio”, a differenza dell’impiegata curda-irachena. Un piccolo esempio per far capire qual’è la differenza tra la schizofrenia di chi è diviso tra la subalternità a modelli estranei alla propria cultura e l’incapacità di superare il tradizionalismo religioso e chi invece sottopone a critica sia la “modernità” che la propria cultura pregressa per cercare di costruire la propria via all’emancipazione.