mercoledì, Novembre 20, 2024

In Italia la retorica dell’estrema destra è diventata la nuova normalità

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).
Illustrazione di Pietro Amoruoso.

I politici della destra populista stanno facendo dei “test”, iniettando nell’opinione pubblica parole e pratiche fasciste senza chiamarle con il loro nome.

 

Gli allarmi sul possibile ritorno del fascismo di solito vengono giudicati esagerati, e quindi minimizzati o ridicolizzati. Da destra è diventato usuale prendere in giro quella per il fascismo come un’ossessione della sinistra, mentre il tormentone sul “fascismo degli antifascisti” sta a significare chiaramente che non solo si tratta di un’esperienza storica conclusa, morta e sepolta, lontanissima dall’orizzonte politico attuale, ma anzi: oggi si comportano da fascisti proprio quelli che accusano gli altri di esserlo.

La ragione di questo sbandamento ideologico è semplice: mentre le destre nazionaliste crescono in tutta Europa, a rivendicare esplicitamente una matrice ideologica fascista restano soltanto gruppi minoritari che alla prova delle urne si rivelano ben poco minacciosi. I partiti della destra populista, invece, pur senza fare mai professioni esplicite di antifascismo e spesso mantenendo stretti legami con gruppi politici neo-fascisti, rifiutano abitualmente queste etichette. Se hanno una storia di continuità con esperienze apertamente fasciste—come l’ex Front National in Francia—cercano di recidere un’eredità ormai percepita come scomoda e controproducente in termini elettorali.

Il punto è che denunciare queste forze politiche come fasciste, come a volerne smascherare l’ipocrisia, non funziona; e lo stiamo vedendo chiaramente in Italia—dove peraltro il termine ha perso gran parte della sua valenza peggiorativa dopo anni di sdoganamento e normalizzazione del regime mussoliniano. Rigettata dai destinatari, l’accusa si ritorce puntualmente sul mittente: Salvini fa una citazione letterale di Mussolini nell’anniversario della sua nascita? È più grave il presidente della Provincia di Parma che, per rispondere alla provocazione, pubblica lo screenshot del post di Salvini a testa in giù.

La strategia di comunicazione del ministro dell’Interno è piena di strizzate d’occhio di questo genere all’elettorato neofascista: prima della citazione mussoliniana c’è stato il caso del giubbotto di Pivert, marchio legato a CasaPound, esibito allo stadio Olimpico lo scorso maggio; pochi giorni fa, invece, ha indossato una maglietta commercializzata da un sito che vende merchandising neonazista. Risalendo indietro nel tempo l’elenco si può allungare all’infinito: dal 25 aprile definito una “festa troppo rossa” alle polemiche contro l’approvazione del ddl Fiano sull’apologia di fascismo, passando per l’immancabile tormentone sulle “tante cose buone” fatte nel Ventennio.

Salvini sfrutta queste provocazioni come un drappo rosso da corrida: di fronte alle critiche non rinnega né rivendica mai nel merito, ma fa un passo di lato e ridicolizza gli avversari, che se la prendono tanto per una maglietta o per un giubbotto e “danno la caccia al fascista inesistente.” È un comportamento da troll.

Ma il trolling non è senza effetti: oltre a solleticare una certa parte dell’elettorato leghista, le continue sparate sui social network o nelle interviste servono a spingere al centro del dibattito idee, linguaggi, atteggiamenti che fino a pochi anni fa non sarebbero stati accettabili. 

Ogni volta si sposta l’asticella un po’ più in là—poi al limite, se proprio è necessario, si ritratta: in questo modo si sonda la tolleranza dell’opinione pubblica e, allo stesso tempo, si conferisce legittimità a certe argomentazioni o proposte politiche altrimenti marginali. È stato così per la proposta di fare un censimento dei rom—seguita puntualmente da un mezzo dietrofront—o per l’abolizione della Legge Mancino, proposta dal ministro Fontana con argomenti deliranti (il “razzismo anti-italiano”) ma ormai perfettamente integrati nella retorica del governo.

A questo proposito, l’editorialista dell’Irish Times Fintan O’Toole ha parlato—in un pezzo che ha avuto ampia diffusione in Italia e non solo—di “ trial run”, ossia di “test” o “prove tecniche”: non essendo possibile applicare da un giorno all’altro un’agenda politica fascista dopo decenni di democrazia liberale, è necessario condurre dei test graduali, alzando la posta in gioco fino a forzare i vincoli morali che determinano l’accettabilità di certi provvedimenti. 

È un meccanismo che ha a che fare più con il marketing che con la politica: O’Τοοle fa riferimento alla gestione dell’immigrazione da parte dell’amministrazione Trump —dopo lo scandalo dei bambini separati dalle famiglie e chiusi letteralmente in gabbia oltre il confine con il Texas—ma il ragionamento si può applicare tranquillamente anche alle sparate della destra nazionalista britannica e, ovviamente, alla propaganda continua di Matteo Salvini.

In quest’ottica, quelle che possono sembrare gaffe, provocazioni, “frasi shock”—come citare Mussolini o dire che nei campi rom vivono 30mila “parassiti”—sono in realtà dei micro-sondaggi in tempo reale: un modo per testare la reazione dell’opinione pubblica e normalizzare la retorica xenofoba. A che serve fare apertamente professione di fascismo se si possono far digerire certi suoi contenuti senza chiamarli con questo nome? È una strategia che Salvini conosce bene almeno da quando nel 2009—quando era ancora un deputato semi-sconosciuto—proponeva carrozze della metropolitana riservate solo ai milanesi.

Lo scarso risultato di CasaPound alle elezioni del 4 marzo ha indotto molti a pensare che l’allarme per la “marea nera”—suscitato da alcuni blitz neofascisti di grande risonanza come quello di Veneto Fronte Skinheads a Como—fosse soltanto una bolla mediatica. In realtà, si trattava di un allarme indirizzato verso il bersaglio sbagliato: mentre formazioni di estrema destra borderline catalizzavano l’attenzione, un partito pienamente legittimato come la Lega faceva campagna elettorale con le stesse parole d’ordine—“prima gli italiani”—e normalizzando la stessa identica retorica anti-immigrati. 

Se il “fascioleghismo” come fenomeno politico non è certo una novità, l’arrivo di Matteo Salvini al governo e la crescita vertiginosa del suo consenso rappresentano indubbiamente un salto di qualità. La campagna elettorale permanente in cui è impegnato, in maniera praticamente indistinguibile tra prima e dopo le elezioni, secondo molti rivela chiaramente la volontà di arrivare a Palazzo Chigi. E se, come pensa O’Toole, quella che stiamo vivendo è solo la fase delle prove generalizzate, in corso in gran parte delle democrazie occidentali, a preludio di qualcosa di ben più terribile, occorre chiedersi a quel punto quali idee saranno diventate pienamente accettabili.

Umberto Eco, in un suo famoso saggio del 1995, riconosceva come improbabile il ritorno del fascismo in una delle sue incarnazioni storiche del XX secolo, ma identificava una serie di caratteristiche che costituiscono in un certo senso il suo nucleo essenziale—l’”ur-fascismo” o “fascismo eterno”. Molte di queste—dal culto per la tradizione all’ossessione per i complotti—si ritrovano facilmente nelle nuove destre identitarie, ma ne basta anche una sola, scrive Eco, perché un nuovo fascismo possa prendere forma. 

Per risolvere la contraddizione tra l’impronta fascista delle nuove destre e il rifiuto esplicito di questa etichetta, lo storico Enzo Traverso, nel suo ultimo libro I nuovi volti del fascismo, suggerisce la definizione di “postfascismo”: cioè un’esperienza transitoria, di passaggio, dall’eredità del fascismo classico a qualcosa di completamente diverso e non ancora formato.

Tratti comuni dei movimenti “postfascisti” sono il nazionalismo, l’islamofobia e la tendenza al protezionismo in campo economico; ma ciò che li caratterizza è anche “un contenuto ideologico fluttuante, instabile, spesso contraddittorio, nel quale si mescolano filosofie politiche antinomiche.” 

Questa transitorietà spiega l’importanza del test-marketing: in assenza di un’ideologia forte di riferimento, le nuove destre costruiscono la propria identità su assi programmatici la cui efficacia viene misurata in tempo reale sulle reazioni dell’elettorato. Così trovano la capacità di dissolversi e riformarsi dietro nuovi cavalli di battaglia: basti pensare al passaggio della Lega dalla retorica “no euro” a un euroscetticismo moderato, o dal secessionismo anti-meridionale alla xenofobia sovranista e identitaria.

Chiaramente, questa fase di transizione non può durare per sempre. Quando i movimenti postfascisti “si saranno fissati in qualcosa di nuovo, con caratteristiche politiche e ideologiche precise e stabili,” scrive Traverso, “si dovrà coniare una nuova definizione.” A quel punto, però, forse sarà troppo tardi per preoccuparsi.
(Sebastian Bendinelli, Vice Italia, 13 agosto 2018)

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