La forza dell’Erdoğan che impone se stesso alla storia e alla Turchia sta in quel gesto, antico simbolo dei temuti “Lupi grigi”, che giovani fan propongono alle telecamere nella notte della vittoria del 24 giugno scorso. È vero che non è l’unica traccia, poiché a gioire per il presidente ci sono donne, giovani e anziane orgogliose nel mostrare le quattro dita (segnale islamista) oppure senza velo, e un’infinità di uomini imbandierati, ventisei milioni che rilanciano il sogno del miracolo turco anche in una fase di crisi economica. Ma è l’alleanza coi nazionalisti del Mhp (il partito dei lupi grigi), che già gli aveva regalato sicurezza parlamentare per varare la Costituzione presidenzialista che vanifica il ruolo del Parlamento, cancella la figura del premier, nomina direttamente i giudici, a rappresentare la carta vincente di questo giocatore incallito e navigato. Un politico che è stato tutto: attivista, sindaco, perseguitato, premier, presidente, fino a farsi rieleggere super-presidente capace d’oscurare il volto del padre della Turchia moderna. Se salute e sorte lo sosterranno sarà Erdoğan a presiedere i festeggiamenti del centenario della nazione fondata dal laico Atatürk e riproposta in chiave d’un islamismo nazionalista.
Contro tutti: i nemici esterni e interni, reali e presunti, che praticano infiltrazioni e tramano golpe, gli oppositori accusati di terrorismo, i media costretti a passare dall’informazione alla propaganda, le voci dissonanti incolpate di libero pensiero. La sua marcia populista ha i tratti ammaliatori e inquietanti dei duci d’ogni epoca. Erdoğan appartiene alla genìa che conquista il potere con l’osanna della gente, che l’acclama e lo vota, riconoscendogli carisma e vicinanza. Quell’essere uomo del popolo che si prodiga, anche, per la popolazione, fa dimenticare i suoi lati oscuri: autocrazia, desiderio di potenza personale e clanista, demagogia e megalomania, furbizia e corruzione. La sua riconferma è frutto sia dell’innegabile intuito politico che gli ha fatto scegliere la stampella giusta, puntando su un gruppo che serba una categoria del secolo scorso, nuovamente rampante in geopolitica: il nazionalismo. Sia nell’instancabile presenza sulla scena internazionale giocata su tanti tavoli, molti pericolosi, però affrontati rischiando di persona e conseguendo, comunque, risultati come sulle vicende siriane, cinicamente incentrate su morti, distruzioni, profughi. Per questo soprattutto nelle cancellerie occidentali l’immagine di Erdoğan fa il paio con quella di un moderno dittatore, che si fa eleggere per calpestare la democrazia, sfruttando al massimo le contraddizioni avversarie sui versanti ideologico, confessionale, identitario.
Gli sconfitti, che nella polarizzazione del Paese, rappresentano numericamente un po’ meno della metà della nazione, mostrano la debolezza della divisione. I numeri non li distanziano moltissimo dal vincitore, ma mentre quest’ultimo si fortifica con un fronte coeso, repubblicani (Chp 22.6%), nazionalisti diversificati dalla casa madre (İyi Partisi 10%), democratici dei popoli (Hdp 11.7%), hanno passato e presente differenti, dunque subiscono la condizione che sempre penalizza chi affronta in solitaria una tenzone. Lo storico raggruppamento kemalista constata la sperequazione fra la leadership mai stata carismatica dell’alevita Kılıçdaroğlu, che ha da anni congelato il partito, e lo slancio offerto dal candidato alla presidenza İnce (30.6%) ormai in odore di guida del Chp. Akșener, fra i nazionalisti anti Erdoğan, persegue un successo solo personale; ruba consensi agli alleati repubblicani non al Mhp, risultato l’asso con cui il presidente ha bissato il successo nelle parlamentari e nelle presidenziali. L’Hdp, nell’unire il voto dell’etnìa kurda a quello della sinistra urbana e dei democratici senza partito, ottiene una riconferma in un triennio durissimo, che ha segnato esistenze e rappresentanza. C’è da sperare che i suoi 67 deputati non finiscano in galera come tanti colleghi che li hanno preceduti.
(Enrico Campofreda, giornalista, esperto di questioni mediorientali, Confronti, 27 giugno 2018)