Molti missionari vanno in crisi quando, con la fine del Secondo conflitto mondiale e l’instaurarsi di nuovi equilibri geopolitici, l’evangelizzazione non coincide più con la civilizzazione coloniale occidentale. E quando la Chiesa, riconoscendo la soggettività delle singole culture, rivede le linee guida dell’agire missionario.
È un cambio di prospettiva piuttosto repentino, che finisce per mettere indirettamente in crisi anche i presupposti dell’evangelizzazione cristiana, sino ad allora non di rado confusa – a torto o a ragione – con la prassi della colonizzazione politica. In poco tempo la Chiesa si trova a doversi confrontare con una sfida epocale, che viene immediatamente colta con consapevolezza dai vertici della Santa Sede, favorevoli ad assecondare una certa evoluzione nei rapporti tra paesi del Nord e paesi del Sud del mondo e, se possibile, a moderarne gli effetti. Altre rilevanti componenti della Chiesa, tuttavia, piombano in questa nuova realtà con un misto di stupore e di disagio. Ciò vale in particolare per gli ordini e le congregazioni missionarie, che dimostrano solo in parte – o per nulla – di essere pronte ad accettare una profonda trasformazione del loro modo di operare e di intendere la missione.
Molti missionari lavorano sul campo da decenni. Sono stanchi, anziani, gravati da carenze abbastanza profonde nell’aggiornamento teologico e pastorale, e fondamentalmente impreparati a confrontarsi con l’inedito rancore di chi, dopo il 1945, inizia a giudicarli come degli agenti stranieri al soldo dei vecchi governi colonizzatori, come degli uomini fuori dal tempo, incapaci di interrogarsi su quale senso possa ancora avere «andare a stravolgere la vita» di chi può forse trovare una dimensione di pace e di salvezza anche solo attraverso la propria fede.
Sono per questo decisamente esposti a quella particolare condizione mentale che Bert Hellinger ha definito “sindrome del benefattore”: quel delicato stato d’animo di chi, nella certezza di avere sempre dato tutto sé stesso per il prossimo, tende a interpretare una possibile trasformazione dei rapporti tra barbari e civilizzatori come una grave forma di “ingratitudine”.
Difficile autocritica
Eppure la strada sembra per loro ormai segnata. Essa deve passare per un doloroso quanto rapido cammino di distacco da certi consolidati orizzonti e da un’ampia revisione autocritica del proprio ruolo. Una strada, questa, idealmente suggellata dalla solenne assise del concilio Vaticano II (1962-1965) che – proponendosi di fornire una definizione dogmatica del concetto di missione – darà una sanzione definitiva a molte delle evoluzioni che, nel corso degli ultimi due decenni, avevano spinto soprattutto i vertici della Santa Sede a una profonda revisione della propria strategia.
Ma anche il cammino che il concilio suggellerà non sarà affatto facile o indolore per la Chiesa. Ciò che ci viene restituito dalla documentazione relativa agli anni 1945-65 è la certezza che, ancora all’inizio degli anni Sessanta, non solo i missionari, ma anche molti vescovi continuavano a muoversi lungo prospettive piuttosto tradizionali, fatte di appelli alla dottrina sociale cristiana e di scarsa attenzione per il rilievo del rapporto Chiesa-culture. Il maggiore interesse per quest’ultimo tema, non a caso, veniva generalmente espresso da vescovi considerati conservatori, animati non tanto dal desiderio di imprimere una svolta alla teologia e alla prassi cattoliche in ambito missionario, quanto piuttosto dall’angoscia per i problemi sollevati dal mondo moderno, che ai loro occhi sembravano gravissimi e che il concilio avrebbe dovuto tentare di risolvere, spazzando via incertezze e paure.
È noto che la costituzione pastorale Gaudium et spes, del dicembre 1965, offrirà una nuova definizione del concetto di cultura (che si sforzerà di recepire i principali risultati conseguiti nel settore dalla ricerca antropologica, facendo esplicito cenno alla “pluralità” delle culture); che il decreto Ad gentes sull’attività missionaria della Chiesa, del dicembre 1965, identificherà tutta la Chiesa – e non solo quella occidentale – come missionaria e come frutto ed espressione delle varie culture; che, da quel momento, saranno soprattutto i movimenti laici, nati dopo l’enciclica Populorum progessio del 1967 e sollecitati anche dalla contestazione del Sessantotto, a dimostrare un vivo spirito di rinnovamento, sforzandosi di sovrapporre a pure esigenze religiose anche delle innovative tendenze di carattere politico, umanitario, culturale, volte a superare i meccanismi di spoliazione ai danni dei paesi del Terzo mondo; che la stessa Santa Sede non resterà a guardare, visto che, accanto alla crescente internazionalizzazione della curia romana, con la Costituzione Regimini Ecclesiae Universae, del 15 agosto 1967, disporrà un’ampia riorganizzazione dei dicasteri secondo le direttive del concilio.
Verrà anche realizzata la trasformazione della congregazione di Propaganda Fide in congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli, a cui verrà affidato sia il coordinamento dell’opera missionaria nel suo complesso sia la gestione della cooperazione e dell’aiuto attraverso l’«uso dei metodi scientifici» e di mezzi adeguati ai tempi (frutto delle nuove ricerche nel campo della teologia e della pastorale missionaria).
Il Vaticano II rilancia
Tuttavia, se si guarda alle discussioni sollevate a cavallo del concilio e dopo la sua conclusione, a emergere è ancora una volta il disorientamento di molti missionari. Una domanda, in particolare, sembra rimanere sullo sfondo, senza incontrare risposte pienamente soddisfacenti e rassicuranti. Nel momento in cui la Chiesa si sforza di “decolonizzare la missione” e sembra farsi strada il principio secondo cui a ogni popolo è dato di “salvarsi” attraverso la sua cultura e la sua religione, vengono di fatto create le condizioni per porre le missioni sull’orlo dell’abisso? Accettare «il pluralismo delle culture» – scrive alla vigilia del Concilio il direttore di Nigrizia, Enrico Bartolucci – significa «accettare un pluralismo religioso inteso nel senso di ritenere tutte ugualmente valide le religioni, e rinunciare quindi a propagandare la fede cristiana»?
Dal punto di vista teologico, il concilio risponderà efficacemente a molti rilevanti interrogativi. E lo farà con una formulazione apparentemente netta. Il decreto Ad gentes preciserà, ad esempio, che la Chiesa è missionaria per definizione, derivando la propria origine dalla missione del Figlio e dello Spirito Santo, realizzatasi per desiderio del Padre. Esso ribadirà cioè che quello missionario è un carattere iscritto nell’ontologia ecclesiale. La certezza che il Padre desideri salvare tutti gli uomini – e desideri farlo non individualmente, ma attraverso i popoli di cui sono parte – non solo continua a incoraggiare, ma anche a imporre alla Chiesa l’azione missionaria.
Dopo avere avviato un profondo ripensamento della cornice culturale attorno a cui la missione è stata sino ad allora proposta, il concilio delegherà inoltre alle nuove missioni il compito di edificare delle Chiese locali – intese come «mezzi ordinari di salvezza» – in ogni contesto territoriale e culturale.
A ben vedere, le nuove linee guida proposte dal concilio non sembrano tuttavia riuscire a fornire una risposta pienamente convincente a un dubbio di fondo: ma ha ancora un senso chiamare missioni queste nuove forme di evangelizzazione?