Saremo orgogliosi di violare questa legge. Abbiamo il dovere di  violare questa legge, come ogni legge liberticida. Non smetteremo di  documentare la realtà. Non smetteremo di fotografare. Non smetteremo di  scrivere, con tutte le nostre forze. 
 
Le associazioni di difesa dei diritti umani faranno lo stesso e con  loro, spero, i testimoni oculari palestinesi, che naturalmente  pagheranno il prezzo più alto per questo. Secondo la proposta di legge approvata il 10 giugno dal comitato legislativo ministeriale, che però ha chiesto la modifica  di alcune parole prima di sottoporla alla Knesset, gli individui che  documentano le azioni dei soldati dell’esercito israeliano in  Cisgiordania potranno essere incarcerati, in determinate circostanze,  per un periodo fino a cinque anni.  
 
Bella iniziativa quella del deputato Robert Ilatov, un democratico,  appartenente a un partito difensore della libertà, Yisrael Beiteinu. La  sua proposta di legge serve solo a dimostrare quanto l’esercito  israeliano abbia da nascondere, ciò di cui si vergogna, quello che c’è  da nascondere, al punto che persino la telecamera e la penna sono  diventati suoi nemici. Mentre Ilatov si schiera contro il terrorismo  delle telecamere, Israele si erge contro la verità. 
 In un’epoca in cui la polizia israeliana equipaggia i suoi agenti  con telecamere da indossare, che secondo le forze di sicurezza sono  state efficaci per ridurre la violenza della polizia, Israele sta  cercando di far sparire le telecamere dai territori occupati, il vero  teatro del suo disonore, in modo che la verità non venga rivelata e  l’ingiustizia venga minimizzata. 
  Senza telecamere, il caso Elor Azaria (il soldato israeliano che ha ucciso un palestinese ferito e steso a  terra, e liberato dopo nove mesi di carcere) non sarebbe esistito. Senza  telecamere ci sarebbero molti più Azaria. È esattamente questo  l’obiettivo della legge: avere molti Azaria. Non che documentare i fatti  permetta di prevenire qualcosa. L’esercito e la popolazione d’Israele  non si curano più molto delle violazioni dei diritti umani e dei crimini  di guerra commessi nei territori occupati, e anche la maggior parte dei  giornalisti non sembra più molto interessata. 
  E pensare che durante la prima intifada rompere delle ossa con una  pietra di fronte alle telecamere di un canale statunitense aveva creato  uno scandalo. Oggi nessuno è più turbato da simili immagini. Anzi, c’è  da chiedersi se verrebbe intrapresa qualche battaglia per pubblicarle.  Ma i soldati d’Israele hanno imparato a trattare la telecamera e la  penna come un nemico. Se un tempo presentavamo le nostre credenziali  stampa ai posti di blocco, oggi le nascondiamo in modo che i soldati non  ci colgano con le mani nel sacco. Una volta siamo stati persino  arrestati.    
 
 
Già oggi raccontare l’occupazione significa violare la legge. Agli  israeliani è vietato entrare nell’area A, controllata dai palestinesi, e  i giornalisti devono “coordinare” il loro ingresso con l’ufficio del  portavoce dell’esercito israeliano. Ma dal momento che non può esistere  un vero giornalismo “coordinato”, tranne che per i corrispondenti  militari in Israele, noi ignoriamo quest’ordine ridicolo, mentiamo ai  posti di blocco, inganniamo, entriamo di soppiatto, usiamo tattiche  d’aggiramento e ci muoviamo in tutta la Cisgiordania. 
 
Dove siete stati, chiedono i soldati dopo ogni visita a Hebron. A  Kiryat Arba. Che cosa facevate da quelle parti? Abbiamo amici che vivono  lì. Dal momento che solo una manciata ormai trascurabile di giornalisti  continua ad andarci, le autorità chiudono un occhio. 
 
L’arma della verità
Ma la tecnologia e l’ong B’Tselem hanno dato vita a un nuovo nemico: le videocamere che vengono consegnate ai volontari palestinesi, e con esse anche i telefoni, messi nelle mani dei palestinesi o dei volontari dell’associazione Machsom Watch.  Improvvisamente diventa più difficile insabbiare e mentire, è  impossibile inventare di sana pianta coltelli e altri pericoli  immaginari dopo ogni uccisione per futili motivi. Chi ci salverà quindi?  Ilatov e la sua proposta di legge che, naturalmente, ha raccolto il  plauso di un altro noto democratico, il ministro della difesa Avigdor  Lierberman. 
    
 
Nel 2003, quando i soldati dell’esercito israeliano hanno aperto il  fuoco sull’auto blindata, con targa israeliana e con la scritta “stampa”  in evidenza, che stavamo guidando a Tul Karm, l’allora portavoce  dell’esercito, il generale Miri Regev, aveva chiesto al direttore di  Haaretz, che aveva prontamente cercato di porre fine all’incidente, per  quale motivo ci trovavamo da quelle parti. Da allora Israele non ha  smesso di porre la stessa domanda. Adesso la Knesset potrebbe davvero  passare all’azione: non solo contro la stampa, con la quale si muove con  prudenza, ma soprattutto contro le organizzazioni umanitarie e gli  abitanti palestinesi, gli ultimi testimoni in grado di denunciare  l’occupazione. Israele sta dicendo loro: non ci saranno più prove  incontrovertibili. 
(Gideon Levy,                                                                 Haaretz, Israele, l’Internazionale, 20                                  giugno 2018)