Sta decollando il #ChurchToo in Italia? Certo ciò non si può prevedere, come non era prevedibile il ciclone del #metoo, madre di tutte le rivolte femministe del XXI secolo. Nel novembre 2017, la rivista Time è uscita con la titolazione “The Religious Community Is Speaking Out Against Sexual Violence With #ChurchToo”. Ma l’ondata non è stata molto avvertita in Italia. Ora, tra le ultime notizie sull’argomento: a) la presa d’atto ufficiale dell’iniquità sessista all’interno delle Chiese evangeliche svizzere; b) le testimonianze rilasciate da tre suore – a cui è stato cambiato il nome: suor Marie, suor Paule e suor Cécile –, in un’inchiesta sullo sfruttamento delle religiose al servizio di uomini di Chiesa, pubblicata nel numero di marzo del mensile dell’Osservatore Romano; c) il convegno delle donne cattoliche di tutto il mondo – svoltosi presso la curia generalizia dei gesuiti in occasione dell’8 marzo – organizzato dal gruppo Voices of Faith, appuntamento apertosi con il discorso introduttivo di Mary McAleese, dal titolo “The time is now for change in the Catholic Church”: «Ora è giunto il momento del #metoo nella Chiesa»; «Non siamo la fragola sulla torta [con riferimento ad una battuta di papa Francesco], siamo il lievito nel pane, e senza di esso la torta della Chiesa si sgonfia. Molte donne se ne stanno andando, non da Cristo né dal Vangelo, ma da una Chiesa maschile», ha affermato l’autorevole esponente del gruppo [v. Adista Notizie nn. 6 e 10/18]. Sull’argomento, in occasione dell’8 marzo, è apparsa poi una bella intervista alla teologa-pastora Letizia Tomassone, che fra l’altro non dimentica di citare la realtà dell’Osservatorio interreligioso contro la violenza di genere [v. Adista online 8/3/18].
La notizia c) è circolata ma solo sui social; la b) ha avuto enorme risonanza mediatica. La a) invece, la meno sensazionale, quasi è passata inosservata. Non mi posso soffermare a commentare – per ragioni di spazio – queste tre informazioni tutte rilevanti, ma della prima qualcosa va detto. L’articolo porta alla luce casi di sessismo e molestie nelle Chiese evangeliche in Svizzera: negli ultimi tempi sono emerse segnalazioni di abusi o molestie attraverso la rete #ChurchToo. Giustamente si fa notare che le molestie – appena accennate – per prima cosa devono essere accertate, e secondariamente non sarebbero episodi di grave rilevanza. Sarebbero casi di quella “normale” prassi comunicativa, fatta di locuzioni volgari a sfondo sessuale o approcci più marcatamente offensivi nei confronti di donne. Non ha preso la cosa sottogamba Andreas Borter, teologo ed ex direttore dell’Istituto svizzero per le questioni maschili e di genere, il quale osserva: «Ciò che colpisce è la poca sensibilità riscontrabile negli ambienti ecclesiastici quando si tratta di potere e dipendenza […] Non è accettabile che, dopo l’accusa e l’indignazione in rete, ci si limiti a puntare il dito contro capri espiatori e si affronti la questione sulla base di questi mascalzoni […]. In occasione delle celebrazioni per i 500 anni della Riforma, svoltesi lo scorso autunno a Berna, le donne hanno letto e pregato, mentre gli uomini hanno predicato e benedetto. Questa divisione dei ruoli dimostra che nella chiesa riformata le cose veramente importanti sono ancora prerogativa degli uomini».
Vorrei partire da queste parole del pastore Borter: egli opportunamente nomina quella che è un’ingiustizia strutturale nelle Chiese, che si manifesta per esempio in una divisione dei ruoli segnata da gerarchia misogina; ed osserva come non si tratti quindi di difendere le donne da “mascalzoni” (cosa che riconfermerebbe lo stereotipo per cui le donne debbono essere “protette” dai malvagi – che sono sempre “gli altri”) –. Il pastore manifesta poi la preoccupazione che il #ChurchToo non svapori nell’irrilevanza dopo una fiammata di comunque giusta indignazione.
Il tema “religioni e violenza contro le donne” racchiude certamente le offese ricevute da molte donne dal clero, ma, comprendendoli, trascende questi fatti e va alla radice dei rapporti di potere che si sono instaurati da molto tempo tra assetti/dottrine religiose e donne.
Le religioni sono complici?
Quando si dice violenza sulle donne, sovente si pensa a maltrattamenti, femminicidi, stupri, tratta connessa alla prostituzione, sfruttamento e abusi sessuali, mutilazioni genitali, aborti selettivi, matrimoni precoci imposti e altre brutalità di tipo fisico. Essa è anche questo, indubbiamente. Le offese contro le donne si manifestano in segni visibili, evidenti, inoppugnabili nelle varie forme della disparità economica, giuridica, sindacale, religiosa e dei codici linguistici. Le radici sono molteplici; una di queste si colloca nel persistente pregiudizio culturale che confina le donne nella sfera della Famiglia (riproduzione/accudimento) e della Seduzione, mentre agli uomini assegna l’attitudine al Pensiero o all’Azione (il credere che la vocazione “naturale” della donna a moglie e madre – e il suo conseguente compimento imprescindibile nella sfera della Famiglia – sia radice di ingiustizia non è affatto condiviso nell’opinione pubblica, anzi è fonte di grave dissidio, come dimostrano le aspre polemiche sulla cosiddetta “teoria del gender”). Che la maggioranza dei femminicidi avvengano in ambito familiare non può essere considerata un’anomalia pertanto, né una dissonanza cognitiva.
La violenza non è solo di tipo fisico/materiale; essa prima ancora si annida nelle consuete dinamiche quotidiane che regolamentano i rapporti (impliciti od espliciti) di potere fra i sessi; per lo più resta invisibile perché la società patriarcale ha operato l’inganno del mascherarla.
Ma l’aggressione pervasiva e strisciante che delle donne offende la Dignità di una esistenza in prima persona, la Sostanza intima della vita, esiste.
Di tutto ciò le religioni sono complici?
È una violenza opaca, subdola, che si nutre del torto del proiettare sulla donna atavici sospetti di impurità e di parentela col male – di cui le religioni e la cultura popolare si fanno tuttora interpreti – ; si nutre del sospetto nei riguardi della donna sul piano della ragione, dell’equilibrio, della padronanza di sé; si nutre della propensione all’inattendibilità delle testimonianze o denunce che una donna presenta; le consegna l’attitudine a tacere piuttosto che a parlare in luoghi pubblici ed insieme l’inclinazione a recitare quello che ci si aspetta da lei, cioè che trasmetta una cultura subalterna; le inculca la “naturalità” di essere strumento (legittimo o illegittimo) del piacere altrui; si annida nel disprezzo sotterraneo che corrode le ragazze che sono state stuprate, colpevoli (e non lo stupratore) di avere perduto la purezza, segno di garanzia di merce integra nello scambio sessuale fra uomini.
Di tutto ciò le religioni sono complici?
Per le donne maltrattate è un martirio elaborare il distacco dal partner, al tramonto di quei legami che erano un tempo intessuti d’amore. Esse sperimentano su di sé quella torsione in cui violenza e amore si mescolano e si confondono. «Ciò che distrugge le donne non è la forza degli uomini ma la loro enorme debolezza», è stato detto da lucide indagatrici. È un rovesciamento iperbolico e paradossale che sconcerta, ma che nomina un inquietante convitato di pietra: il votarsi delle donne al sacrificio, familiare e sessuale insieme.
È un destino che si intreccia al loro essere inascoltate dal mondo quando, una volta uscite dal tunnel delle sofferenze del senso di colpa, esse decidono di non tacere più i torti e di agire il distacco. “Colpevoli” di aver voluto vivere il dono della vita, sono spesso allora punite e uccise. Non sono vittime, sono martiri, testimoni della lotta da loro sostenuta, nella solitudine privata, contro l’asservimento e il peccato dell’ingiustizia sessista. I loro nomi devono essere ricordati.
Di tutto ciò le religioni sono complici?
Analogamente ai contesti viziati dal colonialismo, tale cultura a misura del sesso maschile rimanda al dominante – come in un magico specchio – l’immagine idolatrica di “Soggetto” vincente, artefice di civiltà, progresso, industriosità. Negando la vita propria del/la dominato/a a cui ricorre per il suo sostentamento materiale e affettivo, fa di lei/lui uno strumento, espropriandone l’ energia. Tale cultura si autolegittima come “legge naturale” e/o emanazione di volontà divina; in questo modo agisce più sulla strategia del creare consenso, dell’interiorizzazione di codici morali “naturali”, in un’armoniosa “complementarietà” dei due sessi, piuttosto che sulla esplicitazione di un ordine sessista gerarchico (per nulla stabilito nelle Scritture), sull’esclusione o sull’uso della forza, a cui peraltro ricorre.
Sotto tali maschere razionalizzanti, sotto tali arroccamenti difensivi, si cela però un sostrato di mascolinità tragica: essa proietta sull’altro, sul diverso, paure mai confessate, fantasmi di abbandono e minacce immaginarie; un deposito sepolto di sentimenti di attaccamento e dipendenza infantile agisce però potente ed emerge nei gesti. L’enunciato “Se l’uomo fosse solo il dominatore, il vincitore sicuro di sé, non avrebbe bisogno di uccidere” compendia efficacemente questa riflessione. Crisi intensificatasi nella postmodernità, in consorzi umani divenuti sempre più spirali irriducibili di perdita di status per l’uomo, un segno dei tempi che solo coscienze maschili mature sanno assumere come compito teologico e politico di lungo respiro.
A tutto ciò, quanto le religioni sono consustanziali? L’ispirazione originaria ne è estranea? Nell’ebraismo-cristianesimo, il libro della Genesi può essere letto (anche se non lo è stato per secoli) come l’aurora della differenza/dualità irriducibile fra la creatura-donna e la creatura-uomo; matrice di ogni altra alterità. Ma può anche essere letto come legge divina “prescrittiva”, come ortodossia eterosessuale, condannante ogni altra forma di affettività.
Su quell’aurora, tuttavia, non si sono posati gli occhi del clero patriarcale. Anzi, l’hanno travisata. Le dottrine e le prassi religiose dell’intero mondo, per come storicamente si sono sviluppate e costituite, si sono fatte paladine di un’ermeneutica sacrificale dove la donna in primis è votata al dono di sé, consacrata ad essere, nella rinuncia di sé, il perno materiale, psicologico, affettivo dell’uomo. Si è così codificata l’eclisse dell’alleanza biblica tra maschile e femminile, e il privilegio (anti-biblico) di uno dei due sessi.
Molte donne islamiche sostengono che anche nell’Islam si è operato un gesto analogo.
Pertanto le religioni, fino a quando non assumeranno consapevolezza del furto commesso sono corresponsabili delle iniquità – e del peccato – della violenza sulle donne.
L’Osservatorio interreligioso contro la violenza sulle donne
Dal 2016 a Bologna, il SAE e la Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII organizzano una Tavola rotonda interreligiosa sul tema “Religioni e violenza sulle donne”, un’iniziativa che ha preso corpo sulla scia del documento ecumenico Contro la violenza sulle donne: un appello alle Chiese cristiane in Italia, firmato a Roma il 9 marzo 2015 dai rappresentanti di dieci Chiese cristiane.
Ogni anno il confronto è stato apprezzato tanto per il tema, quanto per le modalità dell’approccio. Esso infatti, oltre ad ospitare molteplici Chiese e comunità religiose – secondo il principio della pluralità confessionale cui le istituzioni promotrici si ispirano – è stato un momento di apertura ad enti o associazioni laiche impegnate a contrastare il fenomeno della violenza sulle donne.
Fin dal suo sorgere, nel movimento ecumenico mondiale (WCC) l’interesse per la parità fra uomini e donne e per sostenere il giusto riconoscimento dei doni ricevuti da Dio in eguale misura è stato uno dei temi ineludibili; sono state realizzate e si realizzano iniziative (insufficienti, però) che promuovono l’impegno delle Chiese intorno al tema in questione: a questo proposito ho creduto opportuno riprendere questa storia misconosciuta con un intervento alla tavola rotonda a Bologna il 16 maggio 2017.
Benché poco noti, anche le donne ebree e le donne musulmane hanno organizzato momenti di riflessione in merito, soprattutto in occasione della giornata del 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza sulle donne.
Sulla rilevanza dell’Appello del 9 marzo 2015 non vi è alcun dubbio: esso ha infatti una innegabile autorevolezza. Nel solco delle tavole rotonde già avvenute, sia l’analisi della sopraffazione maschile che pervade le religioni, sia l’azione di contrasto necessaria, vanno condivise non solo nell’area cristiana, ma insieme ad altre religioni o aggregazioni interessate alla crescita spirituale e civile. Se il citato appello ha evidentemente una matrice definita, ad ogni religione o comunità si rivolge la domanda di collaborazione al progetto.
Non solo gli incontri di Bologna paiono per ora essere un’eccezione, ma negli ambiti ecclesiali si registra per lo più un accentuato disinteresse al tema, se non una desolante ignoranza, con l’unica eccezione delle comunità evangeliche: realtà animate per lo più da pastore donne e in alcuni casi anche pastori uomini. Tranne queste isole felici, si ha l’impressione che l’appello si inabissi nel mare del silenzio, e che non si arresti l’agonia di quel timido ma significativo seme ecumenico, prezioso segno profetico.
Dal 2017 è nato l’Osservatorio interreligioso contro la violenza di genere: con la missione non di svolgere mappature scientifiche, ma di raccogliere descrizioni/racconti/interviste di pratiche o azioni positive realizzate. L’osservatorio ha iniziato il suo lavoro interpellando alcuni dei firmatari (quelli che si sono resi disponibili) dell’appello, a tre anni dalla firma. Ne darò conto in un altro momento.
Per il prossimo anno (2019), molto probabilmente esso si focalizzerà sulla voce delle donne migranti appartenenti alle diverse comunità religiose: una presa d’atto che, nella fase storica attuale, le donne migranti sono per eccellenza vittime di discriminazione, di sfruttamento, e di violenze sessiste, etniche e classiste – cui le religioni non sono estranee. Sarà anche per riconoscere loro quello che molti/e esperti sul campo affermano: che sono più resistenti psicologicamente degli uomini.
(Paola Cavallari, Adista Segni Nuovi n° 12 del 07/04/2018)