DOC-2915. SAN SALVADOR-ADISTA. Oscar Arnulfo Romero,  il “vescovo fatto popolo”, sarà canonizzato lontano dal suo popolo, in  Vaticano, dove l’arcivescovo di San Salvador ha sofferto, sotto il  pontificato di Giovanni Paolo II, incomprensioni e rifiuti. Sarà elevato agli altari – come ha comunicato papa Francesco al Concistoro ordinario pubblico del 19 maggio – durante il sinodo sui giovani, il 14 ottobre, insieme a Paolo VI (il papa che, perlomeno, lo ha incoraggiato e sostenuto) e ad altre quattro figure della Chiesa.
Non è stata dunque accolta dal papa la richiesta, avanzata  in una lettera dai vescovi salvadoregni, affinché la canonizzazione  fosse celebrata nel loro Paese per consentire ai poveri di prendervi  parte, dimenticando forse che erano stati proprio loro, i vescovi,  durante la cerimonia di beatificazione a San Salvador il 23 maggio del  2015, a tenerli a distanza dando la precedenza alle autorità, tra cui  aveva trovato posto persino Roberto D’Aubuisson, figlio  dell’omonimo mandante dell’assassinio di Romero, insieme a diversi  esponenti di quella destra che pure non aveva esitato a inviare propri  rappresentanti in Vaticano per cercare di bloccare il processo di  canonizzazione. Una cerimonia in cui il card. Angelo Amato aveva  potuto presentare Romero non come «un simbolo di divisione, ma di pace,  di concordia e di fraternità», considerando che «la sua opzione per i  poveri non era ideologica, ma evangelica» e che «la sua carità si  estendeva anche ai persecutori». Cosicché l’auspicio del cardinale era  stato che il suo martirio fosse «una benedizione per El Salvador, per le  famiglie, per i poveri e per i ricchi».
Ed è il motivo, questo, per cui Luis Van Velde,  animatore delle Comunità di base del Dipartimento di San Salvador già  molto critico nei confronti della beatificazione del 2015 (v. Adista  Documenti, 22/15), non voleva che Romero fosse canonizzato a San  Salvador, in quanto, afferma nell’intervista che ci ha concesso  all’indomani del Concistoro, sarebbe stato comunque «un evento a misura  dell’istituzione ecclesiastica, con i politici in prima fila e il popolo  a distanza».
Che la celebrazione si svolgesse a San Salvador lo chiedeva invece il prete salvadoregno Rutilio Sánchez,  collaboratore di mons. Romero in qualità di direttore della Caritas  diocesana di San Salvador, prima di scegliere durante la guerra di  esercitare il ministero sacerdotale al fronte, tra i guerriglieri del  Fronte Farabundo Martí. Tuttavia, ci ha spiegato Sánchez, «si può  interpretare questa scelta come un riconoscimento dell’universalità del  suo messaggio: Romero non è più solo salvadoregno, non è più solo San  Romero d’America, ma appartiene a tutti i popoli e a tutte le  religioni», in quanto «profeta della verità chiara e definita, della  parola opportuna e concreta, della giustizia incarnata con tanto di nomi  e cognomi, che non permette confusioni né scuse». Ma, ha aggiunto  Sánchez, affinché il messaggio della sua canonizzazione produca speranza  nei poveri, «dovrà incarnarsi nella realtà di un momento storico fatto  di guerre imperialiste, di un’economia crudele e senza misericordia, di  ingerenze dei Paesi ricchi nelle realtà dei popoli impoveriti».
In molti, in ogni caso, vedranno nella canonizzazione del  14 ottobre a Piazza San Pietro una degna conclusione della messa  interrotta (dal proiettile di un cecchino) il giorno del suo martirio e  di quella interrotta (dalla violenza del regime di destra, sostenuto da  Stati Uniti e Vaticano) il giorno del suo funerale. E con essa avrà  termine anche il lungo, complesso e travagliato processo di  canonizzazione, rimasto tanti anni bloccato a Roma, dalla chiusura della  fase diocesana nel 1996, finché non è arrivato papa Francesco a mettere  fretta ai postulatori delle cause dei santi affinché Romero fosse al  più presto elevato agli altari. Un processo fermo per tanti anni  malgrado l’esame dettagliato delle omelie e degli scritti  dell’arcivescovo non avesse evidenziato alcuna ombra, né a livello di  ortodossia né a quello di ortoprassi. Per ragioni di “convenienza”, si  diceva: perché la memoria dell’arcivescovo divideva ancora la società  salvadoregna, mentre un santo non doveva alimentare divisioni, bensì  essere segno di unità – dunque associare in un unico applauso vittime e  carnefici, contadini massacrati e oligarchi in festa alla notizia  dell’assassinio – e perché, si diceva ancora, la sinistra, locale e  mondiale, aveva ostacolato la causa politicizzando e strumentalizzando  la sua figura, nel tentativo di sottrarre alla Chiesa il “suo” santo, il  “suo” martire, il “suo” vescovo. La stessa Chiesa che, dopo averlo  perseguitato quando era in vita, aveva poi tentato di neutralizzarlo e  di addomesticarlo dopo la morte. Come ha fatto ancora il cardinale Amato  durante la cerimonia di beatificazione nel 2015, quando ha descritto  Romero come «un sacerdote buono, un vescovo saggio, ma soprattutto un  uomo virtuoso» che «amava Gesù e lo adorava nell’eucarestia», «venerava  la Santissima Vergine Maria, amava la Chiesa, il papa e il suo popolo ».
E del resto sono in molti, estranei alla logica delle  canonizzazioni e dei miracoli, a ritenere che di una santificazione  dall’alto non ci fosse bisogno, come già indicava tanti anni fa il  vescovo Pedro Casaldáliga: «Che non canonizzino mai san  Romero d’America perché gli farebbero un’offesa. Egli è santo in un  modo del tutto particolare. È già stato canonizzato dal popolo. Non  occorre altro».    
Non occorre altro se non opporsi al rischio di trasformare  in santo dell’istituzione quello che è e resta il santo del popolo  (quel popolo che egli chiamò suo maestro – «il vescovo ha sempre molto  da imparare dal suo popolo» – e suo profeta – «il popolo è il mio  profeta»), rivendicando la memoria sovversiva dell’arcivescovo, segno di  contraddizione e simbolo planetario di una fede impegnata in difesa  degli oppressi, nella convinzione che nessuno riuscirà a imbrigliare la  portata dirompente della sua vita e del suo messaggio.
(Claudia Fanti, Adista Documenti   n° 20 del 02/06/2018)       
