Oggi, per sapere cosa accade nel proprio Bel Paese quando si vive  all’estero, si ricorre in modo massiccio ai quotidiani, ovviamente in  versione digitale e ciò permette di notare cose che altrimenti  andrebbero perdute. Per esempio l’uso costante e ripetuto di alcune  parole di cui viene condivisa la denominazione, ma non il contenuto. In  cima alla classifica delle ultime settimane c’è il termine “leader”, parola inglese che deriva dal verbo to lead – guidare ed è cosa buona e giusta preoccuparsi quando vengono usati termini stranieri dalla traduzione e significato dubbi.
Recita la Treccani: “Leader: capo di un partito, di un movimento d’idee, di un’organizzazione, di un gruppo”. Dunque, si tratta di qualcuno che, con molta energia,  in modo quasi ossessivo, ha condiviso i valori delle persone in  comando, ha seguito la loro scia, ha sgomitato quelli accanto e sotto di  lui, ha giocato le giuste carte e al momento giusto ha preso il posto del capo,  magari pugnalandolo alla schiena. Non per nulla nell’ippica – si  ringrazia la Treccani di cui sopra – “si chiama leader il cavallo che in  ogni circostanza corre davanti agli altri, li conduce e serve loro da  guida; in particolare è un cavallo anziano bene ammaestrato che si  colloca alla testa di una fila di puledri, allo scopo di addestrarli al  galoppo e di regolarne l’andatura”. Non importa se si stia o meno  dirigendo al bordo del precipizio: la mandria, il gregge lo segue.
Per quello che mi riguarda essere leader ha ben altro significato. Una volta voleva dire avere onore, coraggio, carattere, gentilezza, altruismo. Valori oggi considerati, non senza velato disgusto, “aristocratici”  mentre sono le caratteristiche di qualcuno/a che ha costruito e  interpreta un sistema etico. Essere leader significava avere, difendere e  perseguire ideali frutto di processi di astrazione logica; essere al  servizio delle istituzioni, impegnandosi per la loro conduzione e  crescita; avere il senso dello Stato. Responsabilità dei leader era  avere cura del bene, privato o pubblico, che veniva loro affidato e ci  si aspettava, a fine mandato, di vederselo riconsegnato migliore di come  lo avessero ricevuto. Nulla di tutto questo è il significato di leader  oggi, salvo le solite, rare eccezione. Le solite macchie di leopardo.  Peccato che i leopardi siano in via di estinzione.
Di certo la scuola ha una forte responsabilità per questo stato di cose. Non insegna cosa sia l’etica, i suoi valori e caratteristiche, non insegna diritti e doveri, impegno e responsabilità. Non insegna a gestire scontento, frustrazione e infelicità, elementi normali ed essenziali dell’essere giovani, indispensabili per crescere, imparare, cambiare, pensare, per diventare cittadini. Perché non si diventa leader se prima non si impara a essere cittadini capaci di pensare. I leader sanno pensare.  Sono in grado di riflettere in modo critico sulle organizzazioni, sulla  società cui appartengono. Hanno sviluppato il coraggio (o la follia) di  volere tradurre in azioni le loro critiche. Formulano domande invece di  dare risposte canoniche ai quesiti alla moda che fanno fare bella  figura e sono del tutto sterili. Sono in grado di trovare il modo per  ottenere i risultati desiderati, ma anche e soprattutto di valutare se  sia opportuno conseguirli. Sono capaci di individuare nuove direzioni  per un’organizzazione, un’impresa, un settore industriale, o un Paese.
Sanno percorrere terreni non battuti, inventare un nuovo percorso,  quando vedono il ciglio del burrone avvicinarsi. Pensano in modo  originale e perciò sono disposti a essere impopolari perché pensare in  modo originale non sempre è gradito. Hanno coraggio e immaginazione.  Guardo da dove sono il Bel Paese, la distanza aiuta. Sottopongo il  tutto a scansione ordinata: sinistra, centro, destra e poi destra,  centro, sinistra… cerco i leader. Non ne trovo nemmeno uno. Ho voglia di scendere.
(Andrea Aparo Von Flüe, Il Fatto Quotidiano, 21 maggio 2018) 
Andrea Aparo Von Flüe
Fisico, docente universitario a Roma
Oggi emigrante a Pechino, Director  of Studies di una scuola internazionale. Nacqui, venni laureato in  fisica. Poi ricercatore, docente di Meteorologia in un famoso Istituto  Tecnico Aeronautico, Visiting Scientist presso il Laboratory for  Computer Science del MIT, dipendente pubblico, imprenditore, consulente e  dirigente aziendale, nonché City manager; con esperienze nel settore  pubblico e privato, dall’energia, all’ITC, alla moda. Attualmente,  finanzio la mia vita e chi ne fa parte, tornando a fare l’imprenditore e  il tecnologo per chi mi vuole. Ho l’onore e l’onere di raccontare  storie su strategie varie alla Sapienza, Università di Roma. Fino al  settembre 2014 lo facevo anche al Politecnico di Milano. Partecipo a  programmi televisivi e radiofonici. Sono colpevole di libri e centinaia  di articoli sulle tematiche della tecnologia, reti, strategia e  management. Temo di passare alla storia per il contributo scientifico,  poco serio e troppo faceto, apportato con la famigerata teoria del  “Motore a gatto imburrato”, per il quale – pare – è stata presentata  candidatura per il conseguimento del premio “IgNobel”.
