Ci apprestiamo a festeggiare il ventesimo anniversario della pubblicazione del Catechismo della Chiesa cattolica e i primi 50 anni dall’apertura del Concilio Vaticano II indetto da Giovanni XXIII, un evento storico che ha segnato per sempre la vita della Chiesa e del mondo. In quel periodo fu infatti realizzata una grande apertura nei confronti delle donne. A che punto siamo oggi?
“Anche se il mondo cattolico si sta svegliando – e ne è la riprova che durante la celebrazione di domenica 7 ottobre, per l’apertura del Sinodo, Benedetto XVI proclamerà ‘Dottore della Chiesa’ Santa Ildegarda di Bingen, monaca benedettina nel cuore del Medioevo tedesco e ‘autentica maestra di teologia’ – la Chiesa ha tuttora un serio problema riguardo alla questione della rappresentanza e rappresentazione delle donne. Il Concilio Vaticano II ha indubbiamente attuato delle aperture straordinarie: su 2.778 presenti, furono ben 23 le donne uditrici1 invitate da Paolo VI – 10 religiose e 13 laiche – anche se a tutte venne però fatto ordine assoluto di tacere. Successivamente, anche il pontificato di Giovanni Paolo II con la sua Mulieris Dignitatem ha certamente realizzato uno sdoganamento culturale della questione di genere. Eppure, non mi sembra che tutto ciò sia purtroppo servito a risolvere in profondità il dibattito. Un esempio per tutti? Il sacerdozio femminile, su cui lo stesso Giovanni Paolo II si è esplicitamente espresso nella Lettera Apostolica Ordinatio Sacerdotalis del 1994 ‘sull’ordinazione sacerdotale da riservarsi soltanto agli uomini’, contenente diretti riferimenti alla Dichiarazione Inter Insigniores ‘sull’ammissione delle donne al sacerdozio ministeriale’, documento applicativo stilato dalla Congregazione della Fede nel lontano 1976.
Ciò nonostante, di fatto, il sacerdozio femminile è sempre di più un tema di odierno dibattito sul quale i media del mondo intero continuano a concentrarsi, seppure spesso in modo alquanto banale. Personalmente, non sono favorevole al sacerdozio femminile tout court, ma auspico invece un passo in più. Continuo, infatti, a sperare in un riconoscimento dell’accesso al ministero per le donne, il che significa una radicale trasformazione del ministero in sé, perché la vita della Chiesa non può esistere se non è perfettamente radicata nel mondo al quale parla”.
Mi sembra di capire che lei intraveda una sorta di parallelismo tra la situazione della donna nella Chiesa e nella società italiana?
“Assolutamente sì. La Chiesa deve certamente fare i conti con le donne, ma non si tratta solo di una questione cattolica. Il problema è realmente culturale: il nostro Paese è strutturalmente ostile alle donne e, in questo ambito, mi sento di affermare che noi siamo culturalmente indietro rispetto a molte altre democrazie. Mi vengono i brividi quando sento parlare di ‘teologia al femminile’ o di ‘approccio al femminile’, perché nell’immaginario collettivo questo significa femminilizzare i problemi, ossia addolcire le asperità maschili. Sono invece fermamente convinta che, per far avanzare sia la Chiesa sia l’Italia, ci sia urgente bisogno di una democrazia paritaria, la quale va ben al di là di una semplice parità o uguaglianza di diritti. E rifondare la politica italiana con il criterio del ‘50 e 50’ è una condizione sì necessaria, ma assolutamente non sufficiente. Occorre creare una cultura del genere, cultura che manca totalmente in Italia e che passa in primis dalla classe intellettuale, ma anche dall’opinione pubblica”.
La stessa opinione pubblica che spesso addita la Chiesa come ideologicamente contraria alle donne.
“Nella Chiesa – artefice di un indubbio contributo riguardante l’immaginario sul femminile – e nella società civile, le donne si devono ancora confrontare con una cultura patriarcale che le vede chiuse in un modello fondato sulle aspettative maschili. Dal dolce stilnovo alle olgettine di Arcore, non ci si aspetta che le donne abbiano un’esistenza in quanto tale, ma che siano come devono essere: sensibili, accoglienti, materne: in una parola, morbide. La sfida sia per la società civile che per la Chiesa è, invece, tutt’altra: riuscire a ridiscutere una cultura del genere che distingua fra il maschile e il femminile, e capire quali conseguenze questo comporti. In tutta questa riflessione, l’apporto femminile è innegabile e imprescindibile”.
“Se oggi anche le donne cattoliche, come le protestanti, studiano e insegnano teologia in tutto il mondo, con tutto quello che questo comporta, lo dobbiamo al profondo rinnovamento ecclesiale di cui il Concilio ha saputo farsi interprete e, al contempo, promotore. Non era certo un caso se, per la prima volta nella storia, facevano parte dell’assise dei vescovi solennemente riuniti nella Basilica vaticana anche 23 donne. Un fatto purtroppo ignorato da tanti e che molti non vorrebbero ricordare, ma che per noi ha un grande valore storico e una grande carica simbolica. Sappiamo tutti molto bene, infatti, anche quelli che vorrebbero dimenticarlo, che la nuova stagione conciliare ha significato la possibilità di coniugare finalmente insieme fede ecclesiale e consapevolezza femminile. E in un contesto attuale, in cui per esempio le stesse congregazioni femminili non hanno più la stessa forza di allora, ma sembrano sempre più ripiegate su se stesse, questa consapevolezza diventa fondamentale. A questo proposito, mi piace pensare che l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica e il patrocinio della Regione Lazio e della Provincia di Roma al nostro Convegno siano il segno di una particolare attenzione sociale e culturale. Va, infine, ricordato che l’ultima giornata del 6 ottobre sarà dedicata alla riscoperta dell’apertura del Concilio alle donne: presso l’Auditorium di via della Conciliazione avrà, infatti, luogo un momento celebrativo intitolato ‘Tantum aurora est. Donne, Vaticano II, futuro’3 con immagini, parole e musica per celebrare e riflettere sulla presenza delle donne nella Chiesa post-conciliare, e per rendere visibile la capacità delle donne di mettere a frutto un’eredità”.
Non saprei se definirla realmente una professione. La mia è stata da sempre un’attrazione fatale, dai tempi in cui insegnavo all’Istituto Massimiliano Massimo di Roma, retto dai Gesuiti; un amore che continua ancora oggi. Sento, però, il bisogno di dire che in Italia esistono ancora troppi vincoli e troppe riserve provenienti dalla gerarchia vaticana: nel nostro Paese, i teologi laici che vogliono insegnare devono conseguire un dottorato in Teologia presso un ateneo o un’università di diritto pontificio, e rimangono sempre sottoposti alla giurisdizione della Congregazione per la dottrina della fede. Io ho scelto di essere teologa per fede. Ma perché questa fede sia anche argomentata, deve essere una fede matura e responsabile, che non sia finalizzata a ruoli gerarchici. E che, lo dico con tutto il cuore, vorrebbe poter essere almeno ascoltata”.