Gli israeliti sotto il comando di Giosuè circondarono le mura di Gerico per sette giorni, suonarono le trombe e gridarono per far cadere i muri (cfr Gs 6, 1-20). Non abbiamo trombe ma abbiamo voci, voci di fede e siamo qui per gridare, per far crollare le mura della misoginia della nostra Chiesa. Circondiamo queste mura da 55 anni, da quando l’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII indicò per la prima volta il progresso delle donne come uno dei più importanti «segni dei tempi ». La donna «esige di essere considerata come persona, tanto nell’ambito della vita domestica che in quello della vita pubblica » […] In moltissimi esseri umani si va così dissolvendo il complesso di inferiorità protrattosi per secoli e millenni; mentre in altri si attenua e tende a scomparire il rispettivo complesso di superiorità, derivante dal privilegio economico-sociale o dal sesso o dalla posizione politica». Al Concilio Vaticano II l’arcivescovo Paul Hallinan di Atlanta esortò i vescovi a non perpetuare «il posto secondario accordato alle donne nella Chiesa del XX secolo» e a evitare che la Chiesa sia «ritardataria nel portare avanti il [loro] sviluppo sociale, politico ed economico». Il decreto Apostolicam actuositatem afferma che è importante «una loro più larga partecipazione anche nei vari campi dell’apostolato della Chiesa». La Costituzione pastorale Gaudium et spes afferma che l’eliminazione della discriminazione basata sul genere è una priorità. Paolo VI ha anche commissionato uno studio sulle donne nella Chiesa e nella società. Sicuramente pensavamo allora che la Chiesa postconciliare fosse sulla strada della piena uguaglianza per i suoi 600 milioni di membri femminili. E sì, è vero che dal Concilio nuovi ruoli e posti di lavoro sono stati aperti ai laici, comprese le donne, ma questi hanno aumentato solo marginalmente la visibilità delle donne in ruoli subordinati, anche in Curia, non aggiungendo nulla al loro potere decisionale o alla loro voce.
Incredibilmente, dal Concilio i ruoli specificamente designati come adatti ai laici sono stati deliberatamente chiusi alle donne. I ruoli di accolito e lettore e il diaconato permanente sono stati aperti solo agli uomini laici. Perché? Sia gli uomini che le donne possono essere servitori dell’altare, ma i vescovi sono autorizzati a mettere al bando le donne e, dove le autorizzano nelle loro diocesi, i singoli pastori possono metterle al bando nelle loro parrocchie. Perché? Nel 1976 ci fu detto che la Chiesa non si considera autorizzata ad ammettere le donne all’ordinazione sacerdotale.
Ciò ha escluso le donne da qualsiasi ruolo significativo nella leadership, nello sviluppo dottrinale e nella struttura dell’autorità della Chiesa dal momento che questi sono stati storicamente riservati agli uomini ordinati o filtrati attraverso di essi. Eppure, nella giustizia divina, il fatto stesso dell’esclusione permanente delle donne dal sacerdozio e tutte le esclusioni che ne derivano avrebbe dovuto indurre la gerarchia della Chiesa a trovare modi innovativi e trasparenti per includere le voci delle donne per diritto e non in uno stillicidio di concessioni puramente simboliche nel Collegio episcopale divinamente istituito e nelle entità costituite dall’uomo come il Collegio cardinalizio, il Sinodo dei vescovi e le Conferenze episcopali, tutti luoghi in cui la fede è plasmata dalla decisione, dal dogma e dalla dottrina.
Immaginate questo scenario normativo: papa Francesco convoca un Sinodo sul ruolo delle donne nella Chiesa e 350 uomini celibi consigliano il papa su ciò che le donne vogliono davvero! Ecco come è diventata grottesca la nostra Chiesa. Per quanto tempo la gerarchia può sostenere la credibilità di un Dio che vuole le cose in questo modo, che vuole una Chiesa dove le donne sono invisibili e senza voce nella leadership, nel discernimento e nel processo decisionale giuridico e dottrinale?
Fu proprio in questa stessa sala, nel 1995, che il teologo gesuita irlandese p. Gerry O’Hanlon puntò il dito contro il problema sistemico soggiacente quando fece approvare il Decreto 14 nella 34ª Congregazione Generale dei Gesuiti. È un documento dimenticato, ma oggi lo rispolveriamo e lo useremo per sfidare un papa gesuita, un papa riformatore, ad agire concretamente e realmente a favore delle donne nella Chiesa cattolica. Il decreto 14 dice: «Abbiamo fatto parte di una tradizione civile ed ecclesiale che ha offeso le donne. E, come molti uomini, abbiamo la tendenza a convincerci che non ci sono problemi. Per quanto involontariamente, abbiamo spesso contribuito a una forma di clericalismo che ha rafforzato il dominio maschile con un sigillo verosimilmente divino. Con questa dichiarazione desideriamo reagire personalmente e collettivamente e fare tutto il possibile per cambiare questa deplorevole situazione».
La «deplorevole situazione» sorge perché la Chiesa cattolica porta da lungo tempo in sé il virus della misoginia. Non ha mai cercato una cura, anche se una cura è disponibile gratuitamente. Il suo nome è “uguaglianza”. Lungo la bimillenaria autostrada della storia cristiana ci sono stati l’eterea bellezza divina della Natività, il crudele sacrificio della Crocifissione, l’Alleluia della Risurrezione e il grido di battaglia del grande comandamento di amarsi l’un l’altro. Ma in quella stessa autostrada sono arrivate tossine create dall’uomo come la misoginia e l’omofobia, per non parlare dell’antisemitismo, con tutta la loro eredità di vite danneggiate e sprecate e disfunzioni istituzionali profondamente radicate. Le leggi e le culture di molte nazioni e sistemi religiosi sono stati profondamente patriarcali ed escludevano le donne; alcuni lo sono ancora, ma oggi la Chiesa cattolica resta indietro rispetto alle nazioni avanzate del mondo nell’eliminazione della discriminazione delle donne. Peggio ancora, perché stiamo parlando del “pulpito del mondo”, per citare Ban Ki Moon: il suo evidente patriarcato clericale funge da potente freno allo smantellamento dell’architettura della misoginia ovunque si annidi. C’è un aspetto ironico qui, perché l’educazione è stata fondamentale per il progresso delle donne e per molti di noi, l’educazione che ci ha liberato è stata fornita dagli operai della Chiesa, clero e laici, che hanno fatto così tanto per sollevare uomini e donne da povertà e impotenza e dare loro l’accesso alle opportunità. Eppure, paradossalmente, sono le voci delle donne cattoliche istruite, e degli uomini coraggiosi che le sostengono, che la gerarchia della Chiesa semplicemente non riesce ad affrontare e che disprezza piuttosto che impegnarsi a dialogarvi.
La Chiesa, che critica il mondo secolare per la sua incapacità di realizzare i diritti umani, non ha quasi nessuna cultura dell’autocritica. È ostile alla critica interna, promuovendo un servilismo con i paraocchi e rasentando l’idolatria istituzionale. Oggi sfidiamo papa Francesco a sviluppare una strategia credibile per l’inclusione delle donne come pari in tutte le strutture di base e decentrate della Chiesa, anche nel processo decisionale. Una strategia con obiettivi, percorsi e risultati regolari da verificare in modo indipendente.
La mancata inclusione delle donne ha privato la Chiesa di un discernimento nuovo e innovativo; l’ha consegnato a un pensiero riciclato in una ristretta élite clericale maschile ermeticamente sigillata, lusingata e raramente messa in discussione da persone che hanno ottenuto il loro posto con procedimenti segreti e chiusi.
Ha tenuto fuori Cristo e ha fatto entrare il fanatismo. Ha lasciato la Chiesa a svolazzare goffamente su un’ala sola quando Dio gliene ha date due. Abbiamo il diritto di ritenere i nostri leader ecclesiali responsabili di questo e di altri gravi abusi di potere istituzionale e insisteremo sul nostro diritto a farlo, indipendentemente da quante porte ufficiali ci verranno chiuse.
All’inizio del suo pontificato, papa Francesco disse: «Dobbiamo creare opportunità ancora più ampie per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa», parole descritte come prova della sua “magnanimità”. Cerchiamo di essere chiari: il diritto delle donne all’uguaglianza nella Chiesa nasce per natura dalla giustizia divina. Non dovrebbe dipendere da una benevolenza papale ad hoc. Papa Francesco ha descritto le teologhe come “le fragole sulla torta”. Si è sbagliato. Le donne sono il lievito della torta. Sono le principali responsabili della trasmissione della fede ai loro figli. Nel mondo occidentale la torta della Chiesa non sta lievitando, il testimone della fede sta cadendo a terra. Le donne si allontanano dalla Chiesa cattolica in massa, perché coloro che sono considerate fattori chiave nella formazione della fede dei figli non hanno la possibilità di essere fattori chiave nella formazione della fede cattolica.
Non è più accettabile. Appena quattro mesi fa, l’arcivescovo di Dublino Diarmuid Martin si è sentito in dovere di sottolineare che «la posizione irrilevante delle donne nella Chiesa cattolica è la ragione più significativa del sentimento di alienazione verso di essa in Irlanda oggi». Eppure papa Francesco ha detto che «le donne sono più importanti degli uomini perché la Chiesa è donna». Santo Padre, perché non chiedere alle donne se si sentono più importanti degli uomini? Sospetto che molte risponderebbero che vivono la Chiesa come un bastione maschile di banalità paternalistiche a cui egli aggiunge la sua quota. Giovanni Paolo II ha scritto del “mistero delle donne”. Parlaci da pari a pari e non saremo un mistero! Francesco ha detto che è necessaria una «teologia più profonda delle donne». Dio sa che sarebbe difficile trovare una teologia delle donne più superficiale della misoginia vestita da teologia che il magistero attualmente cela. E invece ci troviamo di fronte a una teologia più profonda. Non ci vuole molto a trovarla. Basta guardare a Cristo. Giovanni Paolo II ha sottolineato che «Siamo gli eredi di una storia che ci ha condizionato in misura notevole. In ogni tempo e luogo, questo condizionamento è stato un ostacolo al progresso delle donne. (…) Superando le norme della propria cultura, Gesù ha trattato le donne con apertura, rispetto, accettazione e tenerezza… (…) Quanto del suo messaggio è stato ascoltato e messo in atto?». Le donne sono le più qualificate per rispondere a questa domanda, ma siamo confinate a parlare tra di noi. Nessun leader ecclesiale si preoccupa di presentarsi, non solo perché non contiamo per loro, ma perché la loro formazione sacerdotale li prepara a opporre resistenza al considerarci come veri pari. In questa sala nel 1995 la Congregazione dei Gesuiti chiese a Dio la grazia della conversione da una Chiesa patriarcale a una Chiesa di uguali; una Chiesa in cui le donne contino davvero non in base a criteri stabiliti dagli uomini per una Chiesa patriarcale, ma a criteri che rendono importante Cristo. Solo una Chiesa di uguali è degna di Cristo. Solo una Chiesa così può rendere credibile Cristo. Il tempo di quella Chiesa è ora, papa Francesco. Il momento del cambiamento è ora.
(Mary McAleese, Adista Documenti n° 15 del 28/04/2018)