DOC-2913. ROMA-ADISTA. La recente esportazione apostolica di papa Francesco Gaudete et exsultate sulla santità non ha suscitato lo stesso intenso dibattito intraecclesiale al quale altri documenti pontifici hanno dato vita. Eppure essa non è scevra da complessità, messe in luce dalla teologa inglese Tina Beattie. Di educazione presbiteriana ma divenuta cattolica nel 1986, dal 2002 insegna alla Roehampton University a Londra, dove dirige anche il “Digby Stuart Research Centre for Religion, Society and Human Flourishing” (DSRC) e il “Catherine of Siena College”. Consulente teologica dell’agenzia cattolica CAFOD, è stata presidente della “Catholic Theological Association of Great Britain”, nonché nel board del settimanale cattolico The Tablet.
Nel 2014 fu censurata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, che le vietò, tramite l’arcivescovo di St. Andrews e Edimburgo, mons. Leo Cushley, di intervenire ad un’iniziativa promossa dall’Edinburgh Circle della Newman Association, per «aver sovente messo in discussione il Magistero della Chiesa» (v. Adista Notizie n. 36/14). Ha all’attivo pubblicazioni e ricerche sul rapporto tra religione e psicanalisi, tra teologia e teorie di genere, arte, ateismo e diritti delle donne (v. Adista Documenti n. 34/14), nonché sul culto di Maria. Di recente ha partecipato a Roma al simposio sul tema “Why Women Matters” (Perché le donne contano), promosso dall’organismo “Voices of Faith” (v. Adista Notizie n. 10/18). In questo articolo – pubblicato sul sito del gruppo di donne cattoliche “Catholic Women Speak”, del quale è coordinatrice – che presentiamo in una nostra traduzione dall’inglese, Tina Beattie legge Gaudete et exsultate da una prospettiva femminile.
Gaudete et exsultate è stata pubblicata con grande successo il 19 marzo 2018, solennità di San Giuseppe, uno dei santi preferiti di Francesco. È una ricca riflessione sul significato della santità. Pur riconoscendo i santi come modelli di santità perfetta, Francesco si preoccupa di incoraggiare i cristiani nelle sfide quotidiane della vita e di affermare la presenza di Dio e la vocazione alla santità anche negli abissi del fallimento e dello sconforto. Le beatitudini esemplificano le caratteristiche della vita santa e la felicità di cui parlano è il frutto di una vita generosa e umile per e con gli altri. Il cammino verso la santità in Gaudete et exsultate è un pellegrinaggio dinamico alla ricerca della presenza di Dio nel mondo, e il testo invita a uno studio e a una riflessione da vicino. Eppure un certo numero di donne ha espresso inquietudine per questo ulteriore esempio di romanticismo papale, in cui noi donne ci troviamo posizionate come depositi di proiezioni e ideali teologici maschili, con scarsa consapevolezza delle realtà vissute delle donne. Vedi, per esempio, l’articolo di Jamie Manson su NCR Online, “Le donne dovrebbero rallegrarsi per Gaudete et exsultate?” “Donna” è sempre il genere altro negli insegnamenti cattolici ufficiali – demonizzato in passato, romanticizzato e patrocinato dai papi moderni, tra cui Francesco. Vorrei che chiedesse ad alcune sagge amiche donne di leggere quello che scrive e di consigliarlo quando sbaglia.
Quando ho iniziato a leggere Gaudete et exsultate, ho provato un senso di euforia. Il linguaggio è inclusivo, le donne sono nominate e persino citate tra le sue fonti, e le madri e le nonne sono riconosciute come testimoni della fede: «Forse la loro vita non è stata sempre perfetta, però, anche in mezzo a imperfezioni e cadute, hanno continuato ad andare avanti e sono piaciute al Signore» (n. 3). Questo è un gradito riconoscimento del fatto che madri e nonne – come padri e nonni, sacerdoti e tutti quelli che cercano Dio con sincerità – stanno crescendo nella fede e fare errori fa parte di quel processo.
Il campanello d’allarme ha iniziato a suonare quando ho letto questo: «Voglio sottolineare che anche il “genio femminile” si manifesta in stili femminili di santità, indispensabili per riflettere la santità di Dio in questo mondo» (n. 12). Questo termine “genio della donna”, o “genio femminile” come talvolta viene definito, è di una banalità vacua e ridicola. Ricorre negli scritti di Giovanni Paolo II e Francesco. Cos’è questo genio femminile, che contraddistingue le donne particolarmente dotate da Dio, anche se ci viene detto che i nostri corpi femminili ci impediscono di rappresentare Cristo sull’altare, e non vediamo alcun tentativo convincente di includerci più pienamente come uguali nelle istituzioni della leadership e educative della Chiesa? Qualunque cosa sia il “genio femminile”, sembra che la gerarchia ufficiale possa andare abbastanza d’accordo senza di esso.
Andando avanti, scopriamo cosa significa questo “genio della donna”. Francesco descrive la santità quotidiana della gente comune come «la classe media della santità » (n. 7), ed è proprio la moglie e la madre della classe media che qui diventa un esempio di santità: «Questa santità a cui il Signore ti chiama andrà crescendo mediante piccoli gesti. Per esempio: una signora va al mercato a fare la spesa, incontra una vicina e inizia a parlare, e vengono le critiche. Ma questa donna dice dentro di sé: “No, non parlerò male di nessuno”. Questo è un passo verso la santità. Poi, a casa, suo figlio le chiede di parlare delle sue fantasie e, anche se è stanca, si siede accanto a lui e ascolta con pazienza e affetto. Ecco un’altra offerta che santifica. Quindi sperimenta un momento di angoscia, ma ricorda l’amore della Vergine Maria, prende il rosario e prega con fede. Questa è un’altra via di santità. Poi esce per strada, incontra un povero e si ferma a conversare con lui con affetto. Anche questo è un passo avanti» (n. 16).
Questa vita fantasticata della casalinga di ceto medio è una vita a cui nessun uomo celibe in Vaticano aspirerà mai come segno distintivo della santità. Suggerisce nostalgia per uno stile di vita che è stato sempre associato alla famiglia nucleare delle classi medie, ed è stato sostituito per la grande maggioranza delle donne da ruoli più complessi ed esigenti che combinano lavoro e vita domestica.
Ciò mi fa riflettere su come San Giuseppe avrebbe costituito un meraviglioso modello di santità quotidiana per questa esortazione papale pubblicata nel giorno della sua festa. L’esempio di Giuseppe sarebbe in sintonia con il modo in cui oggi vivono molte persone, in famiglie dove gli uomini allevano spesso figli non biologicamente generati da loro, e talvolta per necessità o scelta rinunciano alle loro ambizioni e carriere per sostenere le mogli nelle loro vocazioni, come fece Giuseppe. Sicuramente non c’è un santo che personifichi meglio la sovversiva politica di genere dei Vangeli, di questo marito obbediente e padre per procura che appare solo brevemente e poi scompare nell’oscurità.
Umiliazione e umiltà
C’è un altro conflitto che vivo quando leggo Gaudete et exsultate, e anche questo non è esente da questioni di genere. È quando Francesco affronta la relazione tra umiltà e umiliazione: «L’umiltà può radicarsi nel cuore solamente attraverso le umiliazioni. Senza di esse non c’è umiltà né santità. Se tu non sei capace di sopportare e offrire alcune umiliazioni non sei umile e non sei sulla via della santità. La santità che Dio dona alla sua Chiesa viene mediante l’umiliazione del suo Figlio: questa è la via. L’umiliazione ti porta ad assomigliare a Gesù, è parte ineludibile dell’imitazione di Cristo» (n. 118).
Questo è un approccio alla santità pericoloso, che contraddice la ripetuta enfasi di Francesco sulla dignità e la sua preoccupazione per i più poveri dei poveri.
Può essere che l’occasionale esercizio di umiliazione insegni una lezione importante agli uomini che trascorrono la loro vita in palazzi clericali serviti da docili religiose, ma è proprio vero che un rifugiato, una vittima di tortura, una persona che subisce abusi sessuali, una donna intrappolata in un matrimonio violento, un bambino maltrattato e trascurato, sta imparando un’importante lezione di umiltà? L’umiliazione degli impotenti non è un cammino verso la santità e l’umiltà, né per l’autore né per la vittima. Anche tra coloro che hanno potere, sicuramente è sbagliato confondere l’umiltà con l’umiliazione. La prima è davvero essenziale per la maturità spirituale, ma la seconda non dovrebbe mai essere santificata. Sopportando l’estrema umiliazione per la nostra salvezza, Cristo è venuto per no bilitare e glorificare l’umano, per liberarci dalla vergogna e dall’umiliazione.
Non è una cosa da poco, perché nel definire l’umiliazione come esperienza necessaria per l’acquisizione dell’umiltà, Francesco accetta involontariamente una profonda patologia nel cuore della spiritualità cattolica. Non posso fare a meno di chiedermi se la sua incapacità di affrontare la realtà della crisi degli abusi sessuali – che ora ha provocato un’umile marcia indietro rispetto al suo rifiuto di prendere sul serio accuse di abuso contro la gerarchia cilena – sia un sintomo di questa incapacità di distinguere tra l’umiltà degli umili e l’abiezione degli umiliati. Sviluppare un senso di valore personale quando si è stati umiliati richiede ribellione, coraggio, resistenza e un profondo senso della propria dignità inviolabile agli occhi di Dio. È completamente diverso dall’esperienza di umiltà, alla fine arricchente, di riconoscere i propri difetti e di ritenersi responsabili del proprio torto, o di avere un incontro con una grande bontà, bellezza o mistero che ci ricorda la nostra irrilevanza di creature all’interno della meraviglia della creazione. C’è qualcosa di profondamente sbagliato nel suggerire che l’umiliazione è necessaria per l’umiltà, ed è un’affermazione che ha causato sofferenze indicibili alle donne e in verità a tutte le vittime di abusi e violenze.
Gossip
Questo mi porta alla questione del gossip. Francesco ha orrore del gossip. Una volta ha scherzosamente detto a un gruppo di suore che una suora che spettegola è «una terrorista», spiegando che «il gossip è come una bomba. Uno la getta e poi se ne va tranquillamente, lei distrugge tutto. Non vogliamo suore pettegole. Il miglior rimedio contro questa abitudine è mordersi la lingua». Ricordiamo che il suo modello di santità è una donna che si affretta a casa quando la vicina comincia a spettegolare: «Dice nel suo cuore: “No, io non parlerò male di nessuno”».
Questo è il tipo di indottrinamento che consente all’abuso di prosperare senza controllo. La donna che si allontana e chiude le orecchie quando la vicina cerca di confidare le sue paure sul comportamento del parroco con i bambini, la star di Hollywood che tiene per sé gli abusi sessuali che ha sofferto per mano di un regista, queste sono donne alle quali è stato insegnato a non spettegolare, a non condividere le loro paure e i loro dubbi con altre donne per timore di essere etichettate come pettegole e sobillatrici.
La parola gossip deriva dall’antico inglese godsibb, che significa garante o padrino. È una combinazione della parola Dio e fratello. Forse è tempo che le donne recuperino l’antico significato di quella parola. Il pettegolezzo può essere profondamente dannoso, ma può anche essere un compito divino – una santa responsabilità – condividere con fidati confidenti le proprie paure e i propri sospetti quando le persone che si trovano in posizioni di potere usano quel potere per umiliare e abusare degli altri.
In conclusione, Gaudete et exsultate è una brillante chiamata alla santità, ma è anche un testo che invita all’impegno critico e all’attenzione perspicace. Come tutte le grandi opere di santità, fa parte di un viaggio incompiuto verso una visione di una fede più inclusiva, meno giudicante e più gioiosa. Umilmente suggerisco che Francesco ha bisogno di passare più tempo a spettegolare con le donne che incontra lungo la strada, se vuole capire di più e prescrivere meno riguardo alle visioni, alle vocazioni e alle esperienze di santità delle donne.
(Tina Beattle, Adista Documenti n° 17 del 12/05/2018)
Tina Beattie è nata a Lusaka in Zambia nel 1955, dove ha vissuto fino all’età di diciotto anni, frequentando le scuole presso il locale convento delle suore domenicane. Successivamente ha vissuto anche a Parigi, Nairobi e Harare. Di educazione presbiteriana è divenuta cattolica romana nel 1986. Dal 1988 risiede a Bristol, dove ha frequentato la locale università laureandosi in “Teologia e Studi religiosi”.
Sotto la supervisione di Ursula King, ha poi svolto gli studi di dottorato, focalizzando i suoi interessi sulla teologia e il simbolismo nel culto della Vergine Maria e sulla figura di Eva, utilizzando la teoria psicolinguistica di Luce Irigaray, come chiave di lettura per l’analisi degli scritti cristiani su Maria ed Eva nella Chiesa primitiva e nella più recente teologia cattolica.
Successivamente è divenuta docente presso l’Università di Bristol fino al 2002 quando ha iniziato insegnare alla Roehampton University, dove dirige anche il “Digby Stuart Research Centre for Religion, Society and Human Flourishing” (DSRC) e il “Catherine of Siena College”.
Tina Beattie è consulente teologica dell’agenzia cattolica CAFOD ed è stata presidente della “Catholic Theological Association of Great Britain”, dirigendo anche il settimanale cattolico The Tablet.
Gran parte della ricerca di Tina Beattie verte sul rapporto tra la tradizione cattolica e la cultura contemporanea, in particolare nelle aree inerenti alla sessualità e all’etica riproduttiva, con particolare riguardo ai diritti delle donne.
Tra le sue opere principali va segnalato il New Catholic Feminism: Theology and Theory, pubblicato nel 2006 dalla Routledge di Londra.