“Se Cristo non fosse risorto vana sarebbe la nostra fede” (1 Cor 15). Paolo non lascia margini alla banalizzazione della metafora.
Nelle sue parole c’è tutta la radicalità della Buona novella e del comandamento dell’amore, che la caratterizza rendendo legittima l’incredulità di Tommaso. Per secoli e ancor oggi, fiumi di parole sono stati spesi per rendere razionale quell’invito: metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente.
Non potendo mettere la mano in quel costato, resta salda l’incredulità di Tommaso ed è difficile essere credente. Più facile, infatti, cedere alla tentazione di elaborare una teologia in concorrenza con la scienza, che vivere l’amore per il prossimo e contribuire a costruire giustizia.
Si è reso razionale il messaggio per poterlo predicare senza doverne affidare la testimonianza solo ad una prassi a rischio di emarginazione se non di martirio. Ne è nato un Cristo risorto raccontato dai teologi, e non testimoniato dalla fede dei discepoli che, in tal modo, diventa, secondo Paolo, una fede vana.
La fede nella resurrezione, vissuta e non solo raccontata, diventa così, per il cristiano, una discriminante che gli impone di amare tutti e tutte gli uomini e le donne, anche se estranei e/o nemici. Non basta non peccare non violando i comandamenti della Legge, si deve amare il prossimo tuo come te stesso, anche quello lontano o ostile. La Pasqua diventa per ciascuno occasione per verificare come vive questo impegno, nella famiglia, nella comunità e nella città. In famiglia ciascuno ha il suo ruolo e la sua responsabilità per consentire un armonioso sviluppo della convivenza. Madre e padre cristiani sono chiamati, anche, ad iniziare alla fede i figli che con il battesimo hanno incluso nella Chiesa, assumendosi la responsabilità di averli fatti cristiani. Hanno assicurato loro la possibilità di attingere alla grazia e alla salvezza, ma senza essere certi che essi vorranno giovarsene.
In verità, in genere, i genitori cattolici rimuovono questa responsabilità, affidando la formazione cristiana dei loro figli alla parrocchia: può bastare il catechismo domenicale e la preparazione per la prima comunione. Nella comunità ecclesiale ogni battezzato è chiamato ad interrogarsi se nel quotidiano assolve responsabilmente alla duplice funzione a cui il battesimo lo ha coinvolto: promuovere autentica fraternità all’interno e testimoniare il comandamento dell’amore nel mondo.
Non è più tempo del cristiano-pecora irresponsabile di un gregge affidato a “pastori” professionisti del sacro, funzionari di una “società perfetta”, che stentano a riconoscersi corresponsabili di una comunità di fratelli incarnata in una società a dimensione planetaria. Il battesimo, in verità, crea un Popolo in cui tutte/i sono cittadine/ i ugualmente responsabili e chiamati a testimoniare e ad annunciare il Risorto.
Cittadine/i in un mondo, invece, in cui l’altro è sempre più estraneo e diventa sempre più difficile riconoscerlo prossimo da amare come noi stessi. Come può esserlo la madre che vizia suo figlio o il padre che lo abbandona, la vicina intrigante o il collega carrierista, l’islamico terrorista, l’ebreo oppressore, il cristiano sfruttatore, la sottosegretaria Boschi o l’onorevole Salvini?
Difficile essere cristiani in famiglia, in comunità, in città.
(Marcello Vigli, Adista Notizie n° 9 del 10/03/2018)