martedì, Novembre 12, 2024

La “fede” alla prova (Gv 20,19-31)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).
“Se Cristo non fosse risorto vana sarebbe la nostra fede” (1 Cor 15). Paolo non lascia margini alla banalizzazione della metafora.
Nelle sue parole c’è tutta la radicalità della Buona novella e del comandamento dell’amore, che la caratterizza rendendo legittima l’incredulità di Tommaso. Per secoli e ancor oggi, fiumi di parole sono stati spesi per rendere razionale quell’invito: metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente. 
Non potendo mettere la mano in quel costato, resta salda l’incredulità di Tommaso ed è difficile essere credente. Più facile, infatti, cedere alla tentazione di elaborare una teologia in concorrenza con la scienza, che vivere l’amore per il prossimo e contribuire a costruire giustizia.

Si è reso razionale il messaggio per poterlo predicare senza doverne affidare la testimonianza solo ad una prassi a rischio di emarginazione se non di martirio. Ne è nato un Cristo risorto raccontato dai teologi, e non testimoniato dalla fede dei discepoli che, in tal modo, diventa, secondo Paolo, una fede vana.

La fede nella resurrezione, vissuta e non solo raccontata, diventa così, per il cristiano, una discriminante che gli impone di amare tutti e tutte gli uomini e le donne, anche se estranei e/o nemici. Non basta non peccare non violando i comandamenti della Legge, si deve amare il prossimo tuo come te stesso, anche quello lontano o ostile. La Pasqua diventa per ciascuno occasione per verificare come vive questo impegno, nella famiglia, nella comunità e nella città. In famiglia ciascuno ha il suo ruolo e la sua responsabilità per consentire un armonioso sviluppo della convivenza. Madre e padre cristiani sono chiamati, anche, ad iniziare alla fede i figli che con il battesimo hanno incluso nella Chiesa, assumendosi la responsabilità di averli fatti cristiani. Hanno assicurato loro la possibilità di attingere alla grazia e alla salvezza, ma senza essere certi che essi vorranno giovarsene. 
In verità, in genere, i genitori cattolici rimuovono questa responsabilità, affidando la formazione cristiana dei loro figli alla parrocchia: può bastare il catechismo domenicale e la preparazione per la prima comunione. Nella comunità ecclesiale ogni battezzato è chiamato ad interrogarsi se nel quotidiano assolve responsabilmente alla duplice funzione a cui il battesimo lo ha coinvolto: promuovere autentica fraternità all’interno e testimoniare il comandamento dell’amore nel mondo. 
Non è più tempo del cristiano-pecora irresponsabile di un gregge affidato a “pastori” professionisti del sacro, funzionari di una “società perfetta”, che stentano a riconoscersi corresponsabili di una comunità di fratelli incarnata in una società a dimensione planetaria. Il battesimo, in verità, crea un Popolo in cui tutte/i sono cittadine/ i ugualmente responsabili e chiamati a testimoniare e ad annunciare il Risorto.

Cittadine/i in un mondo, invece, in cui l’altro è sempre più estraneo e diventa sempre più difficile riconoscerlo prossimo da amare come noi stessi. Come può esserlo la madre che vizia suo figlio o il padre che lo abbandona, la vicina intrigante o il collega carrierista, l’islamico terrorista, l’ebreo oppressore, il cristiano sfruttatore, la sottosegretaria Boschi o l’onorevole Salvini? 
Difficile essere cristiani in famiglia, in comunità, in città.  
(Marcello Vigli, Adista Notizie n° 9 del 10/03/2018)

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