“In queste campagne purtroppo lo stato non arriva”, spiega il sociologo Marco Omizzolo, profondo conoscitore della comunità sikh dell’area pontina. Gli ispettori del lavoro sono appena una dozzina, inviati in coppia a sorvegliare un territorio troppo vasto per numeri così esigui. Quando arrivano, la scena è quella che racconta un lavoratore sikh: “Davanti alla cooperativa c’è una persona che fa la guardia e quando arriva il controllo avverte il padrone che manda via gli indiani irregolari. Quando sono andati via li richiama”.
Non è chiaro neppure quanti indiani lavorino sotto il sole e nelle serre arroventate, trasformate in camere a gas dai pesticidi che sono costretti a spruzzare senza alcuna protezione, sottoposti ad angherie e soprusi, sfruttati all’inverosimile, costretti a chiamare “padrone” il datore di lavoro, sottopagati e con il rischio di essere derubati della misera paga mentre tornano a casa in bicicletta. Le presenze censite sono circa 12mila, ma i numeri sono ben più alti, se la Flai-Cgil è arrivata a distribuire quarantamila casacche catarifrangenti ai lavoratori, per tentare di limitare i numerosi incidenti stradali di cui sono vittime soprattutto d’inverno, quando le vie di campagna sono male illuminate.
L’associazione In Migrazione lo definisce “sfruttamento a tempo indeterminato”, in quanto si tratta di un “sistema collaudato, ben strutturato e organizzato” che sfrutta la zona grigia che non distingue nettamente il confine tra legalità e illegalità. Nell’ufficio di Bella Farnia mi mostrano la busta paga di un lavoratore indiano: quattro giorni di lavoro dichiarati in un mese, per un ammontare netto di duecento euro, compreso un “premio presenza” di venti euro e altrettanti di “straordinario”.
In un altro caso la busta paga è inesistente. Il conteggio lo fa a mano il padrone e prevede un acconto e una rateizzazione dei pagamenti. Tutto rigorosamente al nero. “Mio marito lavora anche dieci, dodici ore, però il padrone paga solo 350 euro al mese. Lui scrive su un foglio che deve dare a noi 2.600 euro e poi invece ci dà solo 200-300 euro. Perché la crisi deve valere solo per noi indiani?”, si chiede K. Kaur.
Ma le forme di “sfruttamento a tempo indeterminato” censite dai ricercatori di In Migrazione non finiscono qui. In alcuni casi, i sikh sono costretti ad aprirsi una partita Iva e a mettersi in proprio dagli imprenditori, che in questo modo subappaltano loro il lavoro e pure “il rischio d’impresa”. In altri, come accade a K. Singh, il compenso dichiarato in busta paga è superiore a quello reale: “Io prendo 800 euro ma il padrone scrive sempre 1.200, non so perché. Lui dice che così paga meno tasse, però io credo che lui è furbo e ladro perché la differenza la tiene lui”.
Ma la beffa supera il danno nei casi in cui sono i lavoratori stessi, per ottenere il ricongiungimento familiare, a chiedere una busta paga con un reddito più elevato. “Fanno registrare 800 euro quando ne guadagnano 500, con il risultato che, dichiarando un reddito più alto, sono costretti a pagare di più i servizi sociali”, spiega l’avvocato Santoro.
“Vedo i miei connazionali che accettano queste forme di sfruttamento e questo mi fa scoppiare la testa”, dice Sarbjit, che a Bella Farnia tutti conoscono come Sonny. A 35 anni, deve ringraziare un doloroso quanto provvidenziale incidente che l’ha sottratto a un destino simile a quello di tanti suoi connazionali. Schiacciato da un trattore mentre caricava prugne secche in un’azienda agricola e finito in ospedale con un piede spappolato, è stato di fatto adottato da un medico, che gli ha dato un po’ di soldi e lo ha spinto a seguire un corso d’italiano e un altro di volontariato che gli hanno permesso di diventare mediatore culturale, una figura-tramite molto importante per abbattere pregiudizi reciproci e barriere culturali.
Ora Sonny è impegnato a far sì che i suoi concittadini escano dalla condizione di schiavitù. È stato lui, un anno fa, a far confessare ad alcuni sikh che i padroni gli davano antidolorifici e sostanze stupefacenti, in particolare bulbi d’oppio e metanfetamine, perché non avvertissero la fatica e fossero sfruttati al massimo.
Oggi la situazione è, se possibile, peggiorata. “Molti indiani che hanno perso il lavoro a causa della crisi si sentono a disagio perché non riescono a rispondere alle attese delle famiglie e allora si danno all’alcol o alle droghe e si allontanano dalla comunità”, racconta. Ogni sera l’atrio della stazione di Latina si riempie di queste persone, paria pure all’interno del loro microcosmo sociale.
Chi, come K. Singh, accetta di parlare non riesce a reprimere il senso di colpa: “Noi siamo sfruttati e non possiamo dire al padrone ora basta, perché lui ci manda via. Allora alcuni indiani pagano per avere una piccola sostanza che non fa sentire il dolore alle braccia, alle gambe e alla schiena. Il padrone dice lavora ancora, lavora, lavora, forza, forza, e dopo 14 ore di lavoro nei campi come è possibile lavorare ancora? In campagna per la raccolta delle zucchine gli indiani lavorano piegati tutto il giorno in ginocchio. La sostanza li aiuta a vivere e a lavorare meglio”. Ma non tutti prendono “la sostanza”: “Solo pochi indiani e per non sentire dolore. Serve per arrivare a fine mese e prendere soldi per la famiglia. Capisci?”.
Nelle serre, d’estate, la temperatura supera i 40 gradi e, con i pesticidi, queste ultime diventano delle vere e proprie camere a gas, e allora un aiuto è necessario. Al mercato nero dello schiavismo pontino un ovetto d’oppio costa dieci euro, che vengono sottratte alla già misera paga giornaliera. K. Singh lo mescola nel chai, il tè al latte che è la bevanda preferita dei sikh perché così “fa meno male, allo stomaco e alla gola”. Un effetto collaterale della diffusione degli stupefacenti è che ogni notte il dormitorio allestito dal comune a Latina si riempie di giovani borderline della comunità indiana.
Per Sonny è tutta colpa di Bollywood. Gli immigrati dal Punjab non vengono da famiglie povere ma, come spiega il sociologo Marco Omizzolo che ha seguito alcuni di loro nel viaggio di ritorno dalle loro famiglie in India, da una “classe media che non avrebbe alcuna esigenza di emigrare, ma che ha paura di perdere la posizione sociale nella quale si trova a causa della crisi globale e delle mutate condizioni politiche in India, dove i sikh non hanno più la centralità che avevano ai tempi di Indira Gandhi”.
Alla regista Patrizia Santangeli che su questo spicchio d’oriente italiano ha realizzato un documentario, Visit India, uno di loro racconta di aver pagato settemila euro per arrivare nelle campagne di Sabaudia e trasformarsi da imprenditore agricolo nel suo paese in clandestino sfruttato e senza diritti in Italia.
Anche Sonny viene da una famiglia abbastanza agiata: è figlio di un militare, ha studiato lingue alla Panjab university della capitale Chandigarh progettata da Le Corbusier negli anni cinquanta, lavorava alla Honda e per questo se n’è andato in Austria. Poi, spinto da alcuni conoscenti, è finito da clandestino nel Punjitalia pontino di cui il residence Bella Farnia Mare è la capitale, e oggi sostiene che è per via del fatto che il cinema e la televisione “ci hanno fatto credere in un mondo che non esiste”.
Con un amico che ora vive a Mondragone, racconta, “ogni tanto rievochiamo i tempi in cui guardavamo quei film pieni di bellissimi prati verdi”. Ma, conclude con un’affermazione che molti suoi concittadini, a Bella Farnia e dintorni, sottoscriverebbero, “chi l’avrebbe mai detto che un giorno saremmo stati noi a doverli tagliare?”.
(Angelo Mastrandrea, L’Internazionale, 11 giugno 2015)