Al civico cinquemila e dispari di via Portosello, tra Sabaudia e  Pontinia, non c’è bisogno di bussare. Il cancello è aperto e la campagna  si estende a perdita d’occhio come un latifondo dell’ancien régime,  preceduta da un paio di caseggiati incompiuti senza porte né finestre  ma chiaramente abitati. Da uno di questi si affaccia un uomo di mezza  età. Indossa una camicia blu perfettamente stirata, la barba rasata di  fresco. Conosce il mio accompagnatore, Harbhajan Ghuman, un boscaiolo  trasmigrato dalle vette himalayane ai più modesti monti Lepini dai quali  fa usualmente su e giù a dorso di mulo. 
Volano abbracci e sorrisi. Oggi è il capodanno sikh e l’uomo che  siamo andati a trovare ha lavorato “solo quattro ore”. Ma non è per  questo che è contento e neppure per il fatto che “il padrone è buono”  perché paga cinque euro all’ora “per dodici ore al giorno” e non sempre  si lavora così tanto, bensì perché è giunto per lui il momento di  tornare dalla famiglia, nel Punjab. 
Ha lavorato da ottobre e ha messo da parte un po’ di soldi ma non più  così tanti “come quando c’era la lira e si stava meglio”. Ora, vestito a  festa davanti alla porta del tugurio che il padrone ha affittato per  700 euro al mese a lui e a una decina di suoi concittadini,  correligionari nonché compagni di lavoro, sta per andare a godersi i  frutti della sua vita da schiavo delle campagne. 
I sikh dell’agro pontino, scrive in un dossier l’associazione In Migrazione,  sono “una comunità accogliente, rispettosa, pacifica e dedita al  lavoro”, e proprio questo la rende ideale per lo sfruttamento nelle  campagne. L’abitante del civico cinquemila e dispari di via Portosello  ne è un esempio: vive e lavora come ai tempi della capanna dello zio  Tom, ma non se ne lamenta con nessuno. Sarbjit Chauhan, un giovane  indiano con gli occhialini da intellettuale che incontro tra le casette  formato vacanza di Bella Farnia, mi spiega in un italiano forbito che  gli scogli culturali da superare sono ancora enormi e che i turbanti e  le barbe alla Sandokan, i costumi tradizionali e il tipico pugnale sikh  che ogni buon religioso porta sempre con sé nascondono ancora molta  diffidenza nei confronti degli italiani. 
La Little India pontina, trentamila persone, quasi la metà delle  quali senza permesso di soggiorno, che hanno come punto di riferimento  il tempio Gurdwara di Sabaudia e come capitale questo villaggio di  seconde case per il mare in buona parte affittate agli indiani, a suo  dire oppone ancora troppa resistenza a mescolare tradizioni e costumi  con quelli di casa nostra. 
Oggi è particolarmente arrabbiato perché gli è accaduto di sentirsi  “come in Texas”, non per il razzismo ma per colpa dei suoi connazionali:  “Stamattina sono entrato in un bar, ho preso un caffè e una ciambella e  mi sono seduto a un tavolino per leggere il giornale. C’erano dodici  indiani che mi hanno squadrato tutto il tempo perché io, sikh, bevevo  caffè e oziavo come un italiano”, racconta indispettito per una  “mentalità chiusa che purtroppo è ancora diffusa tra gli anziani”. 
Il problema, tuttavia, non sta tanto nei conflitti tra i sikh  tradizionalisti e quelli più moderni, quanto nella reticenza a  denunciare gli sfruttatori, nella paura di esporsi pubblicamente e in  una certa diffidenza, mascherata dalla proverbiale accoglienza e  convivialità, pure nei confronti di chi si propone di aiutarli:  sindacati, associazioni, magistrati. 
Pian piano, però, qualcosa sta cambiando. Già alla fine di maggio del  2010 un migliaio di invisibili delle campagne erano scesi in piazza a  Latina per il primo sciopero nella storia dell’emigrazione sikh in  queste terre che prima di loro avevano visto una sola grande migrazione  all’inverso, da nord verso sud: quella dei veneti e dei friulani fatti  arrivare dal fascismo negli anni trenta per la bonifica della pianura  pontina. L’epopea, raccontata dallo scrittore Antonio Pennacchi in Canale Mussolini, ha lasciato tracce evidenti nei nomi dei borghi, nei dialetti che si  ascoltano per strada e nei legami culturali con i luoghi d’origine,  solidi e allo stesso tempo imbastarditi dal tempo e dalla lontananza,  come inesorabilmente accade per ogni flusso migratorio. 
Non è che in seguito alla protesta sia cambiato molto per i sikh  delle campagne pontine, anzi la crisi economica non ha fatto che  peggiorare le loro condizioni di vita e di lavoro, ma è da quel giorno  che molti, nella più grande comunità indiana d’Italia dopo quella  emiliana di Novellara, hanno cominciato a capire che a chinare sempre il  capo ci avrebbero rimesso sempre di più. 
Sono così arrivate le prime confessioni, raccolte dall’associazione  In Migrazione e in qualche caso trasformate in vertenze sindacali o in  denunce penali, che sfoceranno nel primo processo, alla metà di luglio  davanti al tribunale di Latina, a carico di un datore di lavoro che si  faceva lautamente pagare promettendo permessi di soggiorno. Visto dallo  sportello che In Migrazione e la Flai-Cgil hanno aperto tra queste  abitazioni di edilizia low cost anni ottanta a un passo dalle dune  mediterranee di Sabaudia, tra negozi che vendono cibo indiano, parabole  puntate su Sikh Channel, per le strade la musica degli autoctoni Bhangra brothers e odori di spezie che esalano dalle abitazioni, si tratta di un evento  storico, la rottura di un velo di omertà che sembrava inscalfibile: è la  prima volta, da queste parti, che uno sfruttatore finisce alla sbarra. 
Un paio di volte alla settimana l’avvocato Diego Maria Santoro viene  qui a raccogliere lamentele e denunce verbali, poi spesso ritirate, e  cerca di convincere chi si rivolge a lui che è necessario battersi per  far valere i propri diritti. Ma le lentezze della giustizia italiana,  spiega, non aiutano affatto: “È vero che c’è un problema di presa di  coscienza da parte dei lavoratori, ma noi non abbiamo nessuna risposta  valida da offrire. Una causa di lavoro dura mediamente tre anni, chi  viene qui di solito ha un problema immediato da risolvere, di stipendi  non pagati o ritardati, di paghe troppo basse, e quando arriva la  risposta spesso è troppo tardi”.
Il risultato è che gli schiavi delle campagne continuano a diffidare di  chi vuole spingerli a denunciare e i datori di lavoro non si spaventano  più del rischio di finire in tribunale. In questo modo le vertenze si  trasformano in un’arma spuntata e rischiano di ritorcersi contro il  lavoratore, sottoposto a ricatti e vessazioni. Rimangono le denunce  penali, ma di regola vince il timore di essere espulsi, se clandestini,  la cattiva conoscenza dei propri diritti o ancora il timore di perdere  il posto. 
“In queste campagne purtroppo lo stato non arriva”, spiega il  sociologo Marco Omizzolo, profondo conoscitore della comunità sikh  dell’area pontina. Gli ispettori del lavoro sono appena una dozzina,  inviati in coppia a sorvegliare un territorio troppo vasto per numeri  così esigui. Quando arrivano, la scena è quella che racconta un  lavoratore sikh: “Davanti alla cooperativa c’è una persona che fa la  guardia e quando arriva il controllo avverte il padrone che manda via  gli indiani irregolari. Quando sono andati via li richiama”. 
Non è chiaro neppure quanti indiani lavorino sotto il sole e nelle  serre arroventate, trasformate in camere a gas dai pesticidi che sono  costretti a spruzzare senza alcuna protezione, sottoposti ad angherie e  soprusi, sfruttati all’inverosimile, costretti a chiamare “padrone” il  datore di lavoro, sottopagati e con il rischio di essere derubati della  misera paga mentre tornano a casa in bicicletta. Le presenze censite  sono circa 12mila, ma i numeri sono ben più alti, se la Flai-Cgil è  arrivata a distribuire quarantamila casacche catarifrangenti ai  lavoratori, per tentare di limitare i numerosi incidenti stradali di cui  sono vittime soprattutto d’inverno, quando le vie di campagna sono male  illuminate. 
L’associazione In Migrazione lo definisce “sfruttamento a tempo  indeterminato”, in quanto si tratta di un “sistema collaudato, ben  strutturato e organizzato” che sfrutta la zona grigia che non distingue  nettamente il confine tra legalità e illegalità. Nell’ufficio di Bella  Farnia mi mostrano la busta paga di un lavoratore indiano: quattro  giorni di lavoro dichiarati in un mese, per un ammontare netto di  duecento euro, compreso un “premio presenza” di venti euro e altrettanti  di “straordinario”. 
In un altro caso la busta paga è inesistente. Il conteggio lo fa a  mano il padrone e prevede un acconto e una rateizzazione dei pagamenti.  Tutto rigorosamente al nero. “Mio marito lavora anche dieci, dodici ore,  però il padrone paga solo 350 euro al mese. Lui scrive su un foglio che  deve dare a noi 2.600 euro e poi invece ci dà solo 200-300 euro. Perché  la crisi deve valere solo per noi indiani?”, si chiede K. Kaur. 
Ma le forme di “sfruttamento a tempo indeterminato” censite dai  ricercatori di In Migrazione non finiscono qui. In alcuni casi, i sikh  sono costretti ad aprirsi una partita Iva e a mettersi in proprio dagli  imprenditori, che in questo modo subappaltano loro il lavoro e pure “il  rischio d’impresa”. In altri, come accade a K. Singh, il compenso  dichiarato in busta paga è superiore a quello reale: “Io prendo 800 euro  ma il padrone scrive sempre 1.200, non so perché. Lui dice che così  paga meno tasse, però io credo che lui è furbo e ladro perché la  differenza la tiene lui”. 
Ma la beffa supera il danno nei casi in cui sono i lavoratori stessi,  per ottenere il ricongiungimento familiare, a chiedere una busta paga  con un reddito più elevato. “Fanno registrare 800 euro quando ne  guadagnano 500, con il risultato che, dichiarando un reddito più alto,  sono costretti a pagare di più i servizi sociali”, spiega l’avvocato  Santoro.  
“Vedo i miei connazionali che accettano queste forme di sfruttamento  e questo mi fa scoppiare la testa”, dice Sarbjit, che a Bella Farnia  tutti conoscono come Sonny. A 35 anni, deve ringraziare un doloroso  quanto provvidenziale incidente che l’ha sottratto a un destino simile a  quello di tanti suoi connazionali. Schiacciato da un trattore mentre  caricava prugne secche in un’azienda agricola e finito in ospedale con  un piede spappolato, è stato di fatto adottato da un medico, che gli ha  dato un po’ di soldi e lo ha spinto a seguire un corso d’italiano e un  altro di volontariato che gli hanno permesso di diventare mediatore  culturale, una figura-tramite molto importante per abbattere pregiudizi  reciproci e barriere culturali.
Ora Sonny è impegnato a far sì che i suoi concittadini escano dalla  condizione di schiavitù. È stato lui, un anno fa, a far confessare ad  alcuni sikh che i padroni gli davano antidolorifici e sostanze  stupefacenti, in particolare bulbi d’oppio e metanfetamine, perché non  avvertissero la fatica e fossero sfruttati al massimo.
Oggi la situazione è, se possibile, peggiorata. “Molti indiani che  hanno perso il lavoro a causa della crisi si sentono a disagio perché  non riescono a rispondere alle attese delle famiglie e allora si danno  all’alcol o alle droghe e si allontanano dalla comunità”, racconta. Ogni  sera l’atrio della stazione di Latina si riempie di queste persone,  paria pure all’interno del loro microcosmo sociale. 
Chi, come K. Singh, accetta di parlare non riesce a reprimere il  senso di colpa: “Noi siamo sfruttati e non possiamo dire al padrone ora  basta, perché lui ci manda via. Allora alcuni indiani pagano per avere  una piccola sostanza che non fa sentire il dolore alle braccia, alle  gambe e alla schiena. Il padrone dice lavora ancora, lavora, lavora,  forza, forza, e dopo 14 ore di lavoro nei campi come è possibile  lavorare ancora? In campagna per la raccolta delle zucchine gli indiani  lavorano piegati tutto il giorno in ginocchio. La sostanza li aiuta a  vivere e a lavorare meglio”. Ma non tutti prendono “la sostanza”: “Solo  pochi indiani e per non sentire dolore. Serve per arrivare a fine mese e  prendere soldi per la famiglia. Capisci?”. 
Nelle serre, d’estate, la temperatura supera i 40 gradi e, con i  pesticidi, queste ultime diventano delle vere e proprie camere a gas, e  allora un aiuto è necessario. Al mercato nero dello schiavismo pontino  un ovetto d’oppio costa dieci euro, che vengono sottratte alla già  misera paga giornaliera. K. Singh lo mescola nel chai, il tè al  latte che è la bevanda preferita dei sikh perché così “fa meno male,  allo stomaco e alla gola”. Un effetto collaterale della diffusione degli  stupefacenti è che ogni notte il dormitorio allestito dal comune a  Latina si riempie di giovani borderline della comunità indiana. 
Per Sonny è tutta colpa di Bollywood. Gli immigrati dal Punjab non  vengono da famiglie povere ma, come spiega il sociologo Marco Omizzolo  che ha seguito alcuni di loro nel viaggio di ritorno dalle loro famiglie  in India, da una “classe media che non avrebbe alcuna esigenza di  emigrare, ma che ha paura di perdere la posizione sociale nella quale si  trova a causa della crisi globale e delle mutate condizioni politiche  in India, dove i sikh non hanno più la centralità che avevano ai tempi  di Indira Gandhi”. 
Alla regista Patrizia Santangeli che su questo spicchio d’oriente italiano ha realizzato un documentario, Visit India,  uno di loro racconta di aver pagato settemila euro per arrivare nelle  campagne di Sabaudia e trasformarsi da imprenditore agricolo nel suo  paese in clandestino sfruttato e senza diritti in Italia. 
Anche Sonny viene da una famiglia abbastanza agiata: è figlio di un  militare, ha studiato lingue alla Panjab university della capitale  Chandigarh progettata da Le Corbusier negli anni cinquanta, lavorava  alla Honda e per questo se n’è andato in Austria. Poi, spinto da alcuni  conoscenti, è finito da clandestino nel Punjitalia pontino di cui il  residence Bella Farnia Mare è la capitale, e oggi sostiene che è per via  del fatto che il cinema e la televisione “ci hanno fatto credere in un  mondo che non esiste”. 
Con un amico che ora vive a Mondragone, racconta, “ogni tanto  rievochiamo i tempi in cui guardavamo quei film pieni di bellissimi  prati verdi”. Ma, conclude con un’affermazione che molti suoi  concittadini, a Bella Farnia e dintorni, sottoscriverebbero, “chi  l’avrebbe mai detto che un giorno saremmo stati noi a doverli  tagliare?”. 
(Angelo Mastrandrea, L’Internazionale, 11                                  giugno 2015)
