Alle due e mezza di notte, quando il paese dorme così profondamente che nemmeno il tocco del campanile si permette di disturbare, un’armata di sonnambuli esce dalla pancia della chiesa: camminano infagottati dentro strati di vestiti colorati e improbabili. Uno calza nel piede destro un mocassino e nel sinistro uno stivaletto. Il suo amico ha avvolto le scarpe nei sacchetti di plastica. Si riversano sul sagrato dove sono parcheggiati i suv dei turisti inglesi e francesi, inseguiti da un piccolo gruppo di «bénévoles», i volontari senza frontiere che da mesi intercettano i migranti pronti a scalare le montagne dopo esser sopravvissuti ai naufragi nel mare.
L’ANELLO che non tiene e trasforma la solidarietà in rivendicazione si spezza a Claviere – piccolo paese tollerante posizionato a cento metri dal confine francese. Siamo nella chiesetta di granito occupata da migranti e volontari due notti fa, quando la notizia di una donna rispedita al mittente come un pacco dalla gendarmeria francese, e deceduta in un ospedale di Torino dopo aver dato alla luce un piccolo bimbo, non era ancora pubblica. Beauty S. era arrivata dalla Nigeria con il marito Destiny, un bimbo nella pancia e un linfoma nel petto. I gendarmi li intercettano a bordo di un autobus nei primi giorni di febbraio a Nevache, ben al di là del confine francese: il marito, non essendo in regola con i documenti di soggiorno viene rispedito indietro, seguito ovviamente dalla famiglia. Li portano a Bardonecchia, alla stazione ferroviaria dove sono recuperati dai volontari di Raimbow for Africa. Beauty ha la salute a pezzi e viene ricoverata a Torino, dove la tengono in vita affinché dia la vita. Resiste un mese, nasce il bambino che pesa nove etti: si chiama Israel. Ieri il giovane marito diceva: «la mia vita senza di Beauty è finita».
E’ il punto morto del mondo, il filo da sbrogliare che finalmente mette nel mezzo di una verità. Così se la verità deve emergere è bene che parta dagli estremi confini della solidarietà, l’invisibile mega macchina che non copre più lo sfasciume di due stati che pienamente concordano sul principio che la deriva dei migranti deve proseguire al di là dei mari affinché raggiunga le montagne.
NON RIMANE che far eruttare il dramma forzando la porta dei sotterranei della chiesa di Claviere e lì, in mezzo a vecchi arnesi e calcio balilla in attesa dell’estate, far entrare i migranti che ormai arrivano a decine ogni giorno.
Superi il lastrone di ghiaccio, fai una rampa di scale, giri a sinistra e ti trovi in un bassofondo della storia che non chiede pietà e commiserazione. I migranti si buttano per terra, il tempo di riposare, il tempo di uscire dall’ipotermia bevendo il the portato da fondovalle da una coppia che il venerdì sera non ha nulla di meglio da fare che salire quassù con l’auto stracarica di thermos: il tempo necessario per capire quanto dista il confine. «Se ho paura della neve e del ghiaccio della notte?» domanda sorridente Mohamed, venti anni. «Sono caduto in mare nel Mediterraneo e non sapevo nuotare: ho imparato. E ora sono qui. Arriverò a Parigi».
Il prete tace. Il vescovo di Torino tace. I migranti circa sessanta ieri sera, si trovano al di sotto della navata centrale della chiesa dove viene celebrata la messa. Parla invece Davide Rostan, pastore valdese della chiesa di Susa: «Noi non abbiamo alcuna voglia di sostituirci allo Stato. Abbiamo fatto azioni di solidarietà di ogni tipo, impendendo che la gente morisse. Questo accade perché i confini sono chiusi, non perché fa freddo e c’è la neve. I confini devono essere attraversabili. La chiesa è stata occupata per necessità, perché si affronti finalmente l’assurdità di questi confini chiusi».
Philippe, un francese di Briançon nella notte di sabato arriva con la sua sgangherata Renault vecchia di cento anni, stracarica di materassi. Solidarietà, certo. Aiuto, certo. Ma soprattutto un avvertimento per tutti: «Non venite nella casetta rifugio da noi in Francia, perché là siamo in sessanta dove possono stare in quindici. Non dovete partire, state qua».
Ma quelli, i migranti, non si fermano. La «Strada del davai» doveva essere così: la neve, i venti sotto zero, i piedi congelati. E avanti.
STRANI PERSONAGGI emergono nell’ombra, conciliaboli in cui si parla di soldi, di passaggi segreti, di offerte imperdibili: «Vi porto io di là, bastano cento euro, conosco bene la strada». I migranti sono alla deriva in un mare di pescecani che chiedono loro denaro per qualsiasi cosa. Quando sono arrivati i primi su queste montagne, squadroni di volontari hanno iniziato a strappare uomini, donne e bambini dagli artigli famelici di un esercito di passeur: poi sono entrati in scena i capelli bianchi del movimento Notav. La val Susa ormai è un territorio dove tutto ciò che è vietato inevitabilmente accade. I migranti, quando erano ancora pochi, venivano portati nei fienili delle cascine dei paesi di fondo valle e qui nascosti, anche per settimane: scene che i vecchi ricordano bene. Poi caricati, a colpi di padre, madre e figlio nel bagagliaio e portati in Francia da coppie vestite a festa: lui con il loden, lei coi guanti rossi e la spilla d’oro. Arrivavano al controllo di Monginevro e i gendarmi salutavano la bella coppia di anziani rispettabili con automobile rispettabile. Dopo pochi chilometri dal baule saltavano fuori gli ospiti e tutti si abbracciavano. Poi la pressione è diventata fuori scala, i controlli al confine serrati e le gite degli anziani turisti troppo frequenti. A decine hanno iniziato a vagare tra sciatori con la pinta di birra e lo snowboard, lungo le piste che portano in Francia.
Sabato mattina, ore quattro, mentre il termometro scende a meno otto: madre, padre con fagotto di pochi mesi legato sulla schiena da una coperta marrone, altro figlio di tre anni al massimo, decidono che partono verso Briançon. Venti chilometri di distanza, due frontiere, cinque ore di marcia se non accade nulla.
Situazione insostenibile, la solidarietà matura e diventa confronto aperto: con lo Stato italiano, con lo Stato francese. Si pensa ad un corteo che muova nei prossimi giorni verso la frontiera. I francesi invece progettano azioni a Briançon. Intanto i quattro partono avvolti dal buio e dal gelo, senza nessuna paura, convinti al di là dell’inimmaginabile, perfino innervositi dal comportamento dei «bénévoles» che provano a spiegare in tutte le lingue del mondo che non è mai troppo tardi per rimandare la sfida con la morte.
(Maurizio Pagiassotti, il manifesto, 25.03.2018)