Mercedes D’Alessandro, giovane e innovativa economista, scrive e pensa al lavoro femminile da un punto di vista nuovo che ha suscitato molto interesse e discussioni nella cultura femminista.
Il femminismo non è una novità, è sempre esistito. L’idea che la donna debba avere gli stessi diritti dell’uomo è un dato culturale appurato. Allora, cosa c’è di particolare nell’essere femminista nel momento storico in cui viviamo?
Una grande differenza è il ruolo che noi donne oggi ricopriamo nel sistema economico. Negli anni sessanta solo due donne su dieci lavoravano fuori casa, oggi a farlo sono sette su dieci.
Questo ha trasformato completamente i rapporti economici e sociali.
In linea di massima, le donne hanno più autonomia perché hanno una professione e dispongono di entrate proprie. Negli Stati Uniti sono il 50 per cento della forza lavorativa, in Argentina oltre il 40 per cento. Ma tutto ciò si è ottenuto e si ottiene al prezzo di una doppia giornata di lavoro: le donne, nella maggior parte dei casi, continuano a occuparsi dei lavori domestici e a prendersi cura della famiglia. Questi compiti richiedono tanto tempo (una media di sei ore al giorno) e, per chi non può permettersi una collaboratrice domestica o disporre di una scuola materna per i figli, diventano un ostacolo.
Molte donne devono lavorare meno ore per riuscire a fare tutto, o lavorarne tantissime, senza mai riposarsi, il che mina la loro salute e la loro crescita personale. Oggi si è femministe con questa doppia identità, di donne con maggiori possibilità, ma ancora confinate culturalmente a un ruolo domestico, e quindi esposte a un maggiore sfruttamento. Inoltre in media guadagniamo meno dei nostri pari uomini e non riusciamo a ricoprire ruoli dirigenziali.
In poche parole, il capitalismo ha un socio occulto: la donna che svolge lavori domestici non retribuiti. E se le cose cambiassero, il mercato ne subirebbe le conseguenze.
Negli anni settanta (come risultato delle lotte sociali del 1968), il femminismo radicale sosteneva che il personale è politico e che i rapporti tra uomini e donne sono rapporti di potere. Crede che la situazione sia ancora la stessa?
Quando parliamo di lavoro domestico non retribuito come di un problema sociale, è proprio così. Perché qualcuno potrebbe dire che le donne scelgono di restare a casa e crescere i figli invece di fare carriera. Ma si tratta di scelte che si fanno nell’ambito di una società in cui, per esempio, una madre ha tre mesi di permesso di maternità e il padre due giorni (almeno in Argentina). Il padre può aver tutta la voglia che vuole di prendersi cura del figlio, ma non ne ha la possibilità. Inoltre una madre che lascia il suo posto in famiglia per lavorare viene contestata, mentre ci si congratula con un padre che si “sacrifica” per la sua famiglia e sta fuori tutto il giorno. Allora, fino a che punto le decisioni personali sono private? “Il personale è politico” è un motto tuttora vigente, che si riferisce anche alla violenza maschilista e a certi modi di affrontare i problemi per cercare soluzioni globali.
Esiste un cambio di guardia tra le veterane battagliere degli anni settanta e ottanta, dallo sguardo molto combattivo ma forse un po’ settario, e le giovani attuali? Esiste un filo conduttore tra il vecchio femminismo e quello di oggi? E il femminismo di oggi su che cosa si basa e in che cosa si differenzia da quello del passato?
Credo che ogni ondata femminista abbia avuto caratteristiche e dibattiti interni molto costruttivi. Io non ho vissuto quelli del passato, che conosco solo attraverso le testimonianze di libri e racconti. Penso in ogni modo che non siano stati meno appassionanti di quelli attuali. Oggi ci sono tanti gruppi e idee, il femminismo è molto diverso.
Il patriarcato invece non è cambiato molto. Quando si leggono i motivi per cui le donne non potevano votare, suonano ancora attuali…
In ogni caso credo che la sfida, non solo del femminismo ma anche della nostra generazione, sia di trovare un’alternativa possibile al mondo in cui viviamo. Viviamo in una società diseguale, e questa disuguaglianza aumenta in rapporto al genere e al colore della pelle. Le donne povere, migranti, nere sono quelle che subiscono maggiormente gli effetti della disuguaglianza. Il nostro sistema economico ci contrappone alla natura. Sono quindi tante le cose da smantellare. In tal senso il femminismo ha molto da offrire.
È notizia recente che l’importante caporedattrice della Bbc Carrie Gracie ha lasciato il suo incarico per la persistente disparità salariale tra uomini e donne nella televisione statale britannica. Nel mondo c’è una discriminazione sistemica contro le donne? Com’è possibile che il divario salariale e la precarietà lavorativa siano il pane quotidiano di milioni di donne in tutto il mondo?
Avendo un onere maggiore nei lavori domestici non retribuiti e nelle cure familiari, le donne hanno meno tempo per lavorare in modo formale. E quindi svolgono lavori precari, che sono quelli peggio pagati. Hanno pertanto meno opportunità di crescere nella loro carriera, professione o impiego. Il che le rende più povere. La povertà è sessista. La precarietà lavorativa è il pane quotidiano di milioni di donne. Certo, neanche gli uomini sfuggono a un mercato del lavoro sempre più difficile, che non può che peggiorare al ritmo dei cambiamenti tecnologici e della robotizzazione. Il divario salariale è il sintomo di una malattia profonda del sistema che bisogna attaccare alla radice.
Secondo i dati 2017 del Forum economico mondiale il divario nel rapporto uomo-donna non solo non sta diminuendo, ma sta addirittura aumentando. Inoltre i dati indicano che il cammino si è invertito in senso negativo. La loro lettura ci mostra un mondo in cui, per esempio, un paese come la Germania, motore dell’Unione europea, ha il terzo divario salariale più grande d’Europa. A suo giudizio, che bisogna fare per ribaltare la situazione?
I dati del Forum economico mondiale, e anche dell’Organizzazione internazionale del lavoro, mostrano che i divari non si stanno colmando. Sono anni che in tutti i forum mondiali si sente parlare di emancipazione della donna ma, quando si cerca di vedere che cos’è stato fatto in tal senso, il quadro è molto triste. Anche nelle questioni più elementari. L’Onu fa grandi discorsi, ma in tutta la sua storia non ha mai avuto un segretario donna. I paesi nordici sono generalmente il faro in questo campo e le loro politiche pubbliche nell’ambito del sostegno alle famiglie hanno dato eccellenti risultati. Per esempio nei permessi di maternità e paternità prolungati, condivisi e obbligatori per entrambi i genitori. Ma c’è ancora tanto da fare.
Dal punto di vista della scienza economica, come spiega il fatto che il mercato puntia mettere la donna in secondo piano all’interno del sistema lavorativo?
Non so se il mercato, inteso come entità astratta, punti a qualcosa.
Quello che, sì, succede è che — come dice Heather Bushey — il capitalismo ha un socio occulto: la donna che svolge lavori domestici non retribuiti. Sono milioni di ore di lavoro non pagate che si fanno in silenzio e che sono vitali per sostenere tutti gli altri lavori. Senza questa donna che lava, stira, mette in ordine, fa la spesa, controlla i compiti dei figli, li porta a scuola o in palestra, spazza il pavimento e cucina, difficilmente si potrebbero portare avanti tutte le altre attività. Quest’idea è rimasta incollata alla donna, come se facesse parte della sua natura, come se fosse una sua responsabilità. Il che, in un mondo dove le donne lavorano otto ore al giorno, non solo è ingiusto, ma è anche penalizzante. Quello che voglio dire è che al mercato fa comodo avere lavoratrici multitasking e gratuite nelle case.
Ci racconti che cos’è «Economía Feminista». In che cosa consiste? Quando ha deciso di lanciarsi in questa avventura e quali sono state le sue motivazioni?
«Economía Feminista» è un sito nato come spazio di riflessione per donne economiste su temi che non facevano parte dell’agenda né dei media né dei nostri colleghi economisti. È nata al grido di «Ni Una Menos», il che le ha conferito un spazio più che importante nel dibattito più vasto legato a tutte le disuguaglianze che noi donne viviamo e che vanno dalla violenza maschilista a quella economica, passando per gli stereotipi che ci vengono imposti e che ci limitano.
Il sito, e soprattutto il dibattito nelle reti sociali, mi ha mostrato, sul piano personale, che nell’economia femminista c’erano moltissime domande senza risposta e mi è servito da ispirazione per scrivere il libro Economía feminista. Come il sito, volevo fosse uno spazio che offrisse idee, dibattiti, e soprattutto che fosse formativo. Che chi lo leggesse potesse imparare qualcosa di nuovo, ma non come un aneddoto, bensì come qualcosa che gli fornisse strumenti per trasformare questo mondo diseguale e patriarcale. A due anni dall’apertura del sito e dalla pubblicazione del libro, posso dire, con grande orgoglio e soddisfazione, che abbiamo contribuito molto al dibattito e al tempo stesso ci siamo incredibilmente arricchite attraverso il rapporto continuo con le nostre corrispondenti. È il posto nel quale mi interessa mettere a frutto la mia personale formazione accademica. Spero molto che possa superare le forme e le barriere delle università e forgiare strumenti, per contribuire direttamente alle espressioni popolari del femminismo.
Mercedes D’Alessandro
Argentina, laureata in economia, docente in varie università e divulgatrice economica, Mercedes D’Alessandro è una delle economiste femministe che hanno suscitato maggior interesse negli ultimi anni.
Nel 2015 ha lanciato il portale «Economía Feminista». La pagina web, che si avvale del lavoro non solo di un gruppo di economiste, ma anche di esperte di altre discipline, è riuscita a inserire l’economia con una prospettiva di genere nell’agenda pubblica latinoamericana e a conquistare le reti sociali.
D’Alessandro, che vive a New York, ha pubblicato nel 2016 Economía Feminista. Cómo construir una sociedad igualitaria (sin perder el glamour) del quale sono state pubblicate sei edizioni.
(da Donne e Lavoro, in Donne Chiesa Mondo. Mensile dell’Osservatore romano, numero 66 marzo 2018)