Un déjà vu, dunque, ma qualcosa è successo in questi decenni. I vecchi partiti erano a guida collegiale, rappresentativa di un reticolo di associazioni, sindacati, categorie, il segretario di turno era il vertice di una piramide, o meglio, un primus inter pares, come lo era il capo del governo al tavolo del Consiglio dei ministri: un coordinatore, un ambasciatore dell’Italia nei consessi internazionali, un capitano della squadra con compiti identici a quelli dei colleghi, più che una guida con effettivi poteri. Paolo Gentiloni, da questo punto di vista, svolge magnificamente questo ruolo di pontiere con il passato. Similmente, anche Confindustria, Cgil-Cisl-Uil, la Banca d’Italia, la Conferenza episcopale italiana, si configuravano come corpi collettivi, il cui capo pro tempore aveva la funzione di rappresentare l’integrità della sua organizzazione, e poi avanti il prossimo.
Quei partiti, però, e quelle reti non esistono più da tempo. A loro si erano sostituite le tribù, fedeli a un capo. Il partito personale, teorizzato per primo dal politologo Mauro Calise. Capi, spesso, senza corpo. Senza radici nella società, piedi piantati sul territorio, terminali diffusi ovunque. Presenza mediatica e verticalizzazione del potere, come l’hanno chiamata sociologi e politologi, il capo e i suoi seguaci, i suoi cerchi magici, è stato il modello della politica italiana nell’ultimo quarto di secolo: la creazione di un sistema in cui contano solo i leader e le loro tribù, i gruppi informali che si aggregano attorno alla figura del Capo.
La novità di questa campagna elettorale è che anche il capo è sparito. Resta come indicazione prevista dalla legge elettorale, il Rosatellum, in eredità delle precedenti, il Porcellum e l’Italicum. Ciascun partito deve indicare il nome del suo “capo politico”. Quando questo termine fu introdotto per la prima volta in una legge elettorale, ci fu un deputato che si alzò nell’aula di Montecitorio per attaccare violentemente questa trovata costituzionale: «Signor Presidente, onorevoli colleghi, con l’emendamento approvato ora dalla maggioranza, la parola “capo” entra per la prima volta nella terminologia delle nostre leggi. Ci rendiamo conto e, soprattutto, vi rendete conto, lo dico con allarme, di cosa significa? Se coloro che si candidano a governare indicano il loro unico capo, l’indicazione non può che essere per l’incarico di formare il Governo. Questo urta contro le prerogative del Presidente della Repubblica, previste dalla Costituzione. Ci rendiamo conto, vi rendete conto di cosa significa?».
I capi politici, dunque, ci sono, ma rifiutano di dire cosa immaginano per il dopo 4 marzo. Nel centrodestra il fondatore di Forza Italia Silvio Berlusconi non si è neppure potuto candidare e a due settimane dal voto tiene coperto il nome del candidato premier come un sacro Graal nascosto nei sotterranei di Arcore. Un capovolgimento rispetto alla discesa in campo del 1994, quando Berlusconi intuì che la differenza tra lui e la coalizione dei progressisti l’avrebbe fatta l’impossibilità per la gioiosa macchina da guerra di dichiarare prima del voto chi sarebbe stato il nome designato per Palaz zo Chigi: Carlo Azeglio Ciampi? Luigi Spaventa? Achille Occhetto? Oggi è il centrodestra a tenere le carte coperte. Nel Pd Renzi fa girare la voce che è pronto a fare il presidente del Senato o addirittura della Commissione europea, ma la verità è che non smette di pensare a Palazzo Chigi, nonostante Marco Minniti gli abbia chiesto di far proseguire il governo di Paolo Gentiloni, come ha raccontato il ministro a Eugenio Scalfari (“Repubblica”, 14 febbraio).
Li abbiamo raccontati in queste settimane, questi capi politici, con copertine, inchieste, commenti: Renzi, Salvini, Berlusconi. In questo numero tocca a Luigi Di Maio. Il cambiamento più sconvolgente sta avvenendo all’interno del Movimento 5 Stelle, ancora favorito dai sondaggi per il posto di primo partito. In M5S il capo politico e fondatore Beppe Grillo è stato sostituito all’inizio della campagna elettorale dal giovane vicepresidente della Camera uscente, l’unico (con Matteo Salvini) a candidarsi apertamente alla guida del governo. Nelle sue manifestazioni, infatti, spunta il manifesto di Di Maio presidente. Il non-partito che aveva un non-statuto, dunque, ha fatto il salto finale e vive la campagna elettorale proporzionale come se fosse un’elezione presidenziale, alla francese o all’americana. Ma in questo modo il movimento ha seguito il percorso degli altri partiti, è diventato una tribù del capo, e di conseguenza la sua vita interna si è trasformata in uno scontro di tribù. Solo la personalità del capo tiene insieme le tribù che si agitano nei potentati locali, tra i notabili, nei futuri gruppi parlamentari. Se il capo non c’è, o è debole, o non può candidarsi, la dialettica interna a un partito degenera in una guerra civile. Renzi contro i capicorrente del Pd, Berlusconi contro Salvini, Di Maio contro Di Battista.
L’esplosione del Movimento 5 Stelle sulla vicenda dei rimborsi taroccati svela in modo definitivo che il processo di omologazione si è compiuto. Ora i post-grillini sono come tutti gli altri. I parlamentari dal bonifico sbianchettato rubano qualcosa di più prezioso perfino delle risorse dello Stato, rapinano la fiducia, la speranza che non tutti siano uguali, tradiscono il patto libero e privato che loro stessi hanno stabilito con l’elettorato, con regole e condizioni da loro stabilite. È nulla, sono cifre irrisorie rispetto alle grandi ruberie dei partiti? Certamente, ma, come si legge in una pagina del Vangelo di Luca, chi è disonesto e infedele nel poco, lo sarà anche nel molto. E il big bang dei 5 Stelle dimostra qualcosa di molto istruttivo per il futuro, per il dopo 4 marzo. Partiti senza un collante identitario, o senza un laico progetto politico, tenuti uniti da una presunta purezza e da un molto più concreto opportunismo, o dalla fedeltà a un capo, sono destinati a polverizzarsi un minuto dopo le elezioni. E dunque per capire come andrà dopo il voto bisogna guardare oltre le singole sigle, i simboli che si affollano sulla scheda, e indovinare quali siano le tribù che si muovono, con quali interessi e quali alleanze.
Quel che vale per la politica vale per il resto della società. «C’è una parte consistente di classe dirigente o supposta tale, una élite industriale e finanziaria, che tace, assiste, ma soprattutto preferisce tessere relazioni vecchie e nuove anziché avere il coraggio di dire in pubblico ciò che sostiene in privato», ha scritto Ferruccio de Bortoli sul “Corriere della Sera” dell’11 febbraio. Il vuoto non è un monopolio della politica. In questa campagna elettorale c’è un’assenza della società e dei mondi organizzati. Riguarda l’impresa, con la Confindustria riunita in questi giorni a Verona, la rappresentanza del lavoro, con il principale sindacato italiano, la Cgil, all’inizio della sua stagione congressuale, ripiegato su se stesso, a disagio con la spaccatura a sinistra, coinvolge il mondo della finanza, delle partecipate di Stato, la Conferenza episcopale paga il distacco di papa Francesco dalla politica italiana, la finanza e le banche sono uscite delegittimate dalla lunga polemica politica. Non è soltanto una difficoltà a schierarsi, ma un’incapacità generale di esercitare una leadership. Di idee, progetti, visioni di futuro. Così la campagna elettorale, nel complesso, ci offre la fotografia di un paese acefalo, forse in linea con la tradizione italiana, eppure più stanco che in passato. Quel che resta della classe dirigente italiana preferisce guardare verso fuori, in direzione dell’Europa, considera questo voto una fastidiosa incombenza. Non è una grande indicazione, in vista del dopo-voto, per quel deputato che avvertiva sulle conseguenze negative per l’equilibrio tra i poteri dell’inserimento della parola capo nella legge elettorale. Si chiamava Mattarella, toccherà a lui decidere.