«Ma allora è finita?», chiede al collega Roberto la signora Elena quando esce dal cancello della Embraco di Chieri.
«Sì, questa volta è finita», è la risposta. Soffia un vento gelido in questo perdurante inverno torinese, che sembra voler spazzare via ogni residua speranza nel giorno che doveva essere quello della svolta. I quasi cinquecento lavoratori della grande fabbrica che produce componenti per frigoriferi speravano che i toni perentori scanditi dal ministro Carlo Calenda la scorsa settimana nei confronti dei padroni statunitensi della Whirlpool riaprissero la trattativa. Minacce pubbliche, e offerte private, non sono servite: dagli Usa è giunta un’alzata di spalle, umiliante nei confronti dei lavoratori e del governo.
COSÌ, MENTRE A CHIERI gli operai si accalcavano intorno al tendone che da sei mesi presidia l’ingresso in attesa di buona notizie, il ministro gettava la spugna di fronte la primato del mercato azionario sulla «responsabilità sociale dell’impresa».
Calenda al termine della non trattativa si infuria e dichiara: «Abbiamo sentito i legali dell’azienda con il presidente Chiamparino e ho ribadito la mia personale rassicurazione sui termini della cassa integrazione e l’azienda ha comunque risposto negativamente. Per me vale solo la pena notare che non si comprende questo atteggiamento. Adesso non ricevo più questa gentaglia, perché onestamente ne ho avuto fin sopra i capelli di loro e dei loro consulenti del lavoro italiani che sono qua». Poi rincara: «Sento di poter dire che si conferma un atteggiamento di totale irresponsabilità dell’azienda, per altro le motivazioni che dimostrano una mancanza di attenzione al valore delle persone e alla responsabilità sociale dell’impresa che raramente mi è capitato di riscontrare».
Ma le parole perentorie del ministro non scaldano i cuori di chi tra pochi giorni verrà buttato in mezzo alla strada.
ROBERTO BROGNARO lavora con la moglie da trent’anni alla Embraco: «Non ci rimane che emigrare, l’Italia dimostra oggi di essere un paese distrutto. Lo so, sembra impossibile pensare una cosa del genere a cinquanta anni, dopo trenta passati sulla linea a montare motorini. I nostri figli sono grandi e noi dovremo trovare un nuovo inizio. Cosa vorremmo che accadesse? Una rivolta».
Volano parole grosse tra i pochi lavoratori che presidiano i cancelli della fabbrica senza futuro, contro tutti: si va dai sindacati alla politica, passando per le multinazionali che depredano il paese, i colleghi che stanno a casa, l’Europa che mette tutti contro tutti, la Slovacchia che ruba il lavoro.
DILAGA IL TRUMPISMO, e il presidente Usa è uno «che difende i suoi lavoratori» perché ha messo i dazi proprio sui prodotti dell’industria del bianco prodotti fuori dagli Stati Uniti.
E del ministro che pronuncia quel «gentaglia» importa poco ai più, perché i più pensano che la multinazionale abbia sempre giocato a carte scoperte e si sapeva quale fosse il suo fine: licenziare, chiudere, tutto delocalizzato.
Dentro il grande capannone la produzione minima continuerà, almeno fino al 25 marzo, giorno in cui scatteranno i licenziamenti collettivi.
VENGONO PRODOTTI quattromila pezzi al giorno, contro i precedenti quarantamila. Già tagliato il servizio mensa, cinque lavoratori a casa, e le navette che portavano i lavoratori allo stabilimento. Tagliata anche la paga oraria di quaranta centesimi all’ora.
È come un assedio che si stringe, fino alla capitolazione.
Carlo Calenda incontrerà a Bruxelles la commissaria alla Concorrenza Margrethe Vestager proprio sulla vicenda Embraco e sul regime di agevolazioni fiscali applicato dalla Slovacchia alle imprese straniere. Quindi per dare corso alla minaccia fatta la scorsa settimana inerente supposti aiuti di stato da parte del governo slovacco. Minaccia che appare spuntata perché nella guerra del tutti contro tutti gli aiuti di stato più o meno mascherati sono all’ordine del giorno.
ALLA EMBRACO OGGI si terrà una grande assemblea fuori e dentro la fabbrica: si deciderà come continuare la lotta, magari spostandola su piani più incisivi di fronte alla «fine» della storia della fabbrica. Molti lavoratori chiedono il picchetto duro che blocchi lo smontaggio delle linee, che verranno probabilmente spedite in Slovacchia nei prossimi mesi. «Solo dieci anni fa in questo capannone gigantesco – racconta Roberto – c’erano sette linee. Oggi c’è solo una linea e mezza».
I grandi spedizionieri sanno che fra poco arriverà a richiesta per il trasferimento. Raffaele, dirigente di una multinazionale dei trasporto che ha una sede a pochi chilometri fa una rapido calcolo: «Dieci metri di linea vengono caricati su un bilico. La linea rimanente è lunga 60 metri? In due settimane non lasciamo nemmeno più un bullone là dentro».
(Maurizio Pagliassotti, il manifesto, 20.02.2018)