La vertenza. Nessuna soluzione per i 497 dipendenti. La proprietaria Whirlpool sceglie di andare subito Slovacchia: niente cig né piano per una rinascita. Il ministro Calenda sull’azienda: «Gentaglia»
«Ma allora è finita?», chiede al collega Roberto la signora Elena quando esce dal cancello della Embraco di Chieri.
«Sì, questa volta è finita», è la risposta. Soffia un vento gelido in  questo perdurante inverno torinese, che sembra voler spazzare via ogni  residua speranza nel giorno che doveva essere quello della svolta. I  quasi cinquecento lavoratori della grande fabbrica che produce  componenti per frigoriferi speravano che i toni perentori scanditi dal  ministro Carlo Calenda la scorsa settimana nei confronti dei padroni  statunitensi della Whirlpool riaprissero la trattativa. Minacce  pubbliche, e offerte private, non sono servite: dagli Usa è giunta  un’alzata di spalle, umiliante nei confronti dei lavoratori e del  governo.
COSÌ, MENTRE A CHIERI gli operai si accalcavano  intorno al tendone che da sei mesi presidia l’ingresso in attesa di  buona notizie, il ministro gettava la spugna di fronte la primato del  mercato azionario sulla «responsabilità sociale dell’impresa».
Calenda al termine della non trattativa si infuria e dichiara:  «Abbiamo sentito i legali dell’azienda con il presidente Chiamparino e  ho ribadito la mia personale rassicurazione sui termini della cassa  integrazione e l’azienda ha comunque risposto negativamente. Per me vale  solo la pena notare che non si comprende questo atteggiamento. Adesso  non ricevo più questa gentaglia, perché onestamente ne ho avuto fin  sopra i capelli di loro e dei loro consulenti del lavoro italiani che  sono qua». Poi rincara: «Sento di poter dire che si conferma un  atteggiamento di totale irresponsabilità dell’azienda, per altro le  motivazioni che dimostrano una mancanza di attenzione al valore delle  persone e alla responsabilità sociale dell’impresa che raramente mi  è capitato di riscontrare».
Ma le parole perentorie del ministro non scaldano i cuori di chi tra pochi giorni verrà buttato in mezzo alla strada.
ROBERTO BROGNARO lavora con la moglie da trent’anni  alla Embraco: «Non ci rimane che emigrare, l’Italia dimostra oggi di  essere un paese distrutto. Lo so, sembra impossibile pensare una cosa  del genere a cinquanta anni, dopo trenta passati sulla linea a montare  motorini. I nostri figli sono grandi e noi dovremo trovare un nuovo  inizio. Cosa vorremmo che accadesse? Una rivolta».
Volano parole grosse tra i pochi lavoratori che presidiano i cancelli  della fabbrica senza futuro, contro tutti: si va dai sindacati alla  politica, passando per le multinazionali che depredano il paese, i  colleghi che stanno a casa, l’Europa che mette tutti contro tutti, la  Slovacchia che ruba il lavoro.
DILAGA IL TRUMPISMO, e il presidente Usa è uno «che  difende i suoi lavoratori» perché ha messo i dazi proprio sui prodotti  dell’industria del bianco prodotti fuori dagli Stati Uniti.
E del ministro che pronuncia quel «gentaglia» importa poco ai più, perché i più pensano che la multinazionale abbia sempre giocato a carte scoperte e si sapeva quale fosse il suo fine: licenziare, chiudere, tutto delocalizzato.
E del ministro che pronuncia quel «gentaglia» importa poco ai più, perché i più pensano che la multinazionale abbia sempre giocato a carte scoperte e si sapeva quale fosse il suo fine: licenziare, chiudere, tutto delocalizzato.
Dentro il grande capannone la produzione minima continuerà, almeno  fino al 25 marzo, giorno in cui scatteranno i licenziamenti collettivi.
VENGONO PRODOTTI quattromila pezzi al giorno, contro  i precedenti quarantamila. Già tagliato il servizio mensa, cinque  lavoratori a casa, e le navette che portavano i lavoratori allo  stabilimento. Tagliata anche la paga oraria di quaranta centesimi  all’ora.
È come un assedio che si stringe, fino alla capitolazione.
Carlo Calenda incontrerà a Bruxelles la commissaria alla Concorrenza  Margrethe Vestager proprio sulla vicenda Embraco e sul regime di  agevolazioni fiscali applicato dalla Slovacchia alle imprese straniere.  Quindi per dare corso alla minaccia fatta la scorsa settimana inerente  supposti aiuti di stato da parte del governo slovacco. Minaccia che  appare spuntata perché nella guerra del tutti contro tutti gli aiuti di  stato più o meno mascherati sono all’ordine del giorno.
ALLA EMBRACO OGGI si terrà una grande assemblea  fuori e dentro la fabbrica: si deciderà come continuare la lotta, magari  spostandola su piani più incisivi di fronte alla «fine» della storia  della fabbrica. Molti lavoratori chiedono il picchetto duro che blocchi  lo smontaggio delle linee, che verranno probabilmente spedite in  Slovacchia nei prossimi mesi. «Solo dieci anni fa in questo capannone  gigantesco – racconta Roberto – c’erano sette linee. Oggi c’è solo una  linea e mezza».
I grandi spedizionieri sanno che fra poco arriverà a richiesta per il  trasferimento. Raffaele, dirigente di una multinazionale dei trasporto  che ha una sede a pochi chilometri fa una rapido calcolo: «Dieci metri  di linea vengono caricati su un bilico. La linea rimanente è lunga 60  metri? In due settimane non lasciamo nemmeno più un bullone là dentro».
(Maurizio Pagliassotti, il manifesto, 20.02.2018)             
