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Alto Adige, la secessione dolce. La scissione nel Pd non è solo una protesta contro Renzi

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

In Alto Adige le piste da sci sono come sempre perfettamente innevate. Ma all’ombra delle Dolomiti qualcosa di inquietante e di opaco si sta verificando ormai da anni. Un processo di lento e progressivo scivolamento del perimetro della sovranità nazionale che in nome di un obbligo alla riparazione del torto storico dell’annessione all’Italia del 1918 sta modificando non solo la geografia sostanziale dei confini italiani ma anche quella più impalpabile dello spirito di una nuova costituzione europea.


Lo Statuto di autonomia in vigore da quaranta anni in questa provincia si basava sull’introduzione di una serie di norme a tutela della minoranza tedesca e ladina che durante il fascismo e nel primo dopoguerra aveva pagato un prezzo sociale, economico e culturale altissimo della colonizzazione. Attraverso queste norme si è costruito un sistema economico politico e sociale che ha portato una area depressa in cima alle classifiche europee del benessere e dello sviluppo.
Oggi la retorica dominante parla di una terra finalmente pacificata da prendere a modello per la soluzione dei problemi di convivenza della popolazioni di confine. Una frontiera della nuova Europa in cui finalmente le sopraffazioni cedono il passo al mutuo riconoscimento e rispetto di identità storie e culture diverse.
In realtà, la convivenza passa da una segregazione spaziale economica e sociale spaventosa tra le due grandi comunità linguistiche italiane e tedesca. Gli italiani sono confinati nei perimetri delle città più grandi al cui interno esistono linee di confine marcate di separazione dentro gli stessi quartieri. Mentre la componente tedesca presenta gli indici di natalità più elevato d’Italia quella italiana è in fase di crollo demografico.
Negli ultimi venti anni le cosiddette norme di attuazione hanno ampliato a dismisura il potere di autogoverno locale: persino le norme urbanistiche nazionali che prescrivono una distanza minima di sicurezza tra edifici non hanno valore e sono sacrificate alle richieste delle lobbies locali dei costruttori. Non si tratta tuttavia di un virtuoso autogoverno territoriale ma di un monogoverno etnico di cui il Pd alleato di giunta in provincia è solo la foglia di fico di un accordo tra un partito tedesco dominante e una minoranza nazionale politicamente agonizzante.
Nel marasma della politica nazionale e all’ombra della rinascita dei nazionalismi europei, arrivato a ottenere quello che l’ex segretario politico della SVP ha definito “la spremitura del limone” nei confronti dello Stato italiano, il partito di raccolta di lingua tedesca ha alzato progressivamente il tiro. Norme fondative dello statuto di autonomia come l’obbligo del bilinguismo della toponomastica sono state scardinate con l’approvazione esplicita del governo locale dalle associazioni alpinistiche tedesche attraverso la rimozione forzata dei cartelli bilingui. Le lobbies tedesche e austriache hanno espulso gli italiani dai pochi settori economici e produttivi in cui avevano ancora una minimale rilevanza. La segregazione spaziale ha continuato a governare l’urbanizzazione delle città e delle aree periferiche.
Chi sperava che attraverso la normalizzazione della situazione si potesse arrivare finalmente alla costruzione di una società basata sull’incontro tra i gruppi linguistici è stato sconfessato. Negli ultimi anni, nonostante parti importanti di società reclamino maggiore apertura, le scuole rimangono rigidamente separate per lingua, sono stati introdotti test per valutare la capacità delle famiglie italiane di iscrivere un figlio alla scuola tedesca, si continua a non potere esercitare il diritto di elettorato passivo se non si ha fornito una dichiarazione di appartenenza linguistica, per potere votare alle elezioni locali bisogna risiedere in provincia da almeno cinque anni. Nel clima di crescente rivendicazione di una riparazione del torto storico dell’annessione, partiti della minoranza irredentista tedesca insieme a una parte consistente della SVP si sono attivati nei mesi scorsi per fare inserire la richiesta della doppia cittadinanza nel programma del nuovo governo nero blu austriaco.
La candidatura di Maria Elena Boschi e Gianclaudio Bressa, storico parlamentare di supporto della SVP, pronto a tutto pur di rinegoziare la sua sesta (!) legislatura in Parlamento, costituiscono la goccia che ha fatto traboccare il vaso dell’indignazione da parte della minoranza del Pd che ha scelto in questi giorni la scelta della scissione. Ma diversamente che da altre parti d’Italia, non si tratta solo e tanto di una protesta contro la leadership autoritaria di Matteo Renzi. In Alto Adige quello che è in gioco e di cui nessuno parla è la rottura silenziosa del patto civico di convivenza sancito dallo statuto di autonomia del 1972. L’autogoverno di cui si continua a lodare i risultati è uno strumento che sta costruendo solo superficialmente le basi di una nuova Europa di incontro e superamento dei confini. Complici le logiche di potere di un partito politico nazionale che grazie all’ego del suo leader sta per consegnare di nuovo l’Italia a Berlusconi, e alle dinamiche di competizione politica del gruppo tedesco, a essere avvalorata è una dinamica di secessione dolce che rinnova per l’ennesima volta in Europa l’idea che i popoli possano essere tali solo se omogenei culturalmente e linguisticamente. Ponti che nascondono muri che si ergono all’orizzonte, non solo candidature paracadutate dall’alto.
Come avrebbe detto Alexander Langer, è il pendolo della rivincita del gruppo linguistico maggioritario che spinge l’Alto Adige verso la peggiore visione dell’Europa possibile e pagarne il conto sono le persone che vorrebbero vivere in mondo normale in cui lingua e cultura diverse sono motivi di curiosità e stimolo all’incontro e non ragioni di separazione e chiusura.

(Luca Fazzi, Il Fatto Quotidiano, 22 febbraio 2018) 
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