Nel corso di quest’anno, l’Italia schiererà una missione militare in Niger con un contingente di 470 soldati dotati di 120 veicoli. L’operazione – sostengono il nostro governo e il ministero della difesa, non senza farne sfoggio – si propone due obiettivi: combattere il terrorismo e porre un argine all’immigrazione. Dopo la sconfitta del Gruppo stato islamico in Siria e in Iraq, una parte dei mille militari in Iraq verrà reimpiegata in Niger. Ma se è vero che il progetto della edificazione dello stato islamico è stato azzerato, non altrettanto si può dire dell’organizzazione terroristica che presto o tardi, temiamo, rialzerà la testa.
E poi perché continuare a illuderci che il terrorismo si può sconfiggere con l’uso della forza? Non ci insegna nulla la lezione dell’Afghanistan? Dopo quindici anni, la missione Nato con un imponente dispiegamento di forze militari non è riuscita a estirpare i talebani e al-Qaida. La situazione è addirittura peggiorata. L’influenza dei talebani in Afghanistan si estende su un territorio più vasto di quello che controllavano prima dell’intervento militare esterno. Intanto sono state “investite” ingenti risorse: l’Italia che partecipa alla missione ha già speso 7 miliardi di euro!
Da dieci anni la missione dell’Unione africana è impegnata in Somalia con truppe dall’Uganda, Etiopia e Kenya per sconfiggere il movimento terroristico al-Shabaab. Senza sortire i risultati sperati. Anzi, attacchi e attentati di al-Shabaab sono più frequenti e letali che mai. Con un bilancio in aumento di vittime militari e civili.
Il terrorismo trova nella povertà e nella emarginazione il terreno fertile per espandersi. Per sconfiggerlo sono necessari sviluppo e redistribuzione della ricchezza, partecipazione democratica. Non le armi.
Il secondo obiettivo che si prefigge l’operazione militare italiana in Niger – insieme a Francia, Germania, Stati Uniti e alla coalizione di 5 stati del Sahel– è quello di bloccare il flusso di migranti che dall’area subsahariana raggiungono la Libia attraverso il Niger. Ma l’invio di militari non potrà arrestare il fenomeno e i migranti – che fuggono da guerre, povertà e cambiamenti climatici – verranno sospinti verso nuove rotte, anch’esse complicate, rischiose e costose. Lo sottolinea un missionario che da anni vive in Niger. Che aggiunge: «Chi ha fame non si ferma con gli eserciti, ma con lo sviluppo».
Le migrazioni (e il terrorismo) hanno radici nell’oppressione e nel degrado tessuto economico e sociale. Lì occorre intervenire, favorendo governi e istituzioni democratici, e capaci di dare dignità ai popoli e stabilità ai paesi.
5 stati del Sahel
Il G5 è un’iniziativa militare congiunta tra Mali, Niger, Ciad, Burkina Faso e Mauritania progettata nel febbraio del 2014 e lanciata nel luglio 2017 per assicurare la sicurezza nella regione sahelo-sahariana. Una forza coordinata nel quadro della lotta alla criminalità locale e alla minaccia terroristica, che dall’inizio della crisi nel Mali, scoppiata nel gennaio 2012, ha compromesso la stabilità geopolitica della zona.
Gli stati aderenti al progetto hanno promesso 10 milioni di euro a testa, ai quali si aggiungono 8 milioni provenienti dalla Francia e 50 dall’Unione europea. Il budget stimato per il funzionamento dell’operazione ammonta a 423 milioni di euro.
(Nigrizia,
29 dicembre 2017)