martedì, Novembre 19, 2024

Solo un Dio-giudice? (Mt 25, 31-46)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

E’ la vendetta: Dio premierà, Dio punirà
Forse anche per Matteo e la sua comunità pensare al “Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti gli angeli, prenderà posto sul suo trono glorioso”, era un pensiero consolatorio che poteva calmare l’ansia circa le proprie incapacità a trasformare la propria vita e quella della società secondo il messaggio di Gesù. Fallimenti, persecuzioni e cedimenti mettevano a dura prova, trascinando il pensiero verso l’immagine apocalittica di un “giudizio finale” che affidava a Dio la soluzione di tutti i problemi e tormenti.
Ma questo non è il messaggio di Gesù
La sua vita ha instancabilmente annunciato la misericordia di Dio: le parabole del “regno” aprono i cuori ad uno spazio accogliente ed infinito in cui le persone non vengono selezionate e divise. Anzi con il suo messaggio ha predicato e con la sua vita ha agito perché non ci fosse nessun/a escluso/a, perché chi era in difficoltà venisse aiutato a reinserirsi nella comunità. Ricordiamo il suo modo di agire amorevole e fraterno verso prostitute, malati, esattori, lebbrosi, indemoniati….
Ed allora mi soffermo sulle parole del brano che riportano nelle mie mani la possibilità che mi è data, che ci è data, di “sentirci dentro il cuore di Dio”: così io interpreto l’affermazione “In verità vi dico che in quanto lo avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, l’avete fatto a me” . Azioni alla mia, alla nostra portata. Non atti eroici o pensieri “stratosferici”.
Perché ebbi fame e mi deste da mangiare; ebbi sete e mi deste da bere; fui straniero e mi accoglieste; fui nudo e mi vestiste; fui ammalato e mi visitaste; fui in prigione e veniste a trovarmi. Occhi ed orecchie che finalmente vedono e sentono il corpo e lo spirito di chi ci è a fianco o anche lontano ma è presente, nella nostra vita, come qualcuno che ci è caro, come qualcuna di cui ci prendiamo cura.
Ma cosa significa prenderci cura di fratelli e sorelle?
Prendersi cura di chi ha fame, per noi oggi significa fare qualcosa perché tutte le genti abbiano il cibo; di chi ha sete, affinché l’acqua non sia un bene di pochi e far sì che le istituzioni politiche non continuino a privatizzarla lucrando sulla vita di altri/e; dei forestieri, perché lo straniero o il “diverso”, sia accolto come una ricchezza al pari di ogni donna e ogni uomo invece che come degli schiavi da sfruttare e/o da far prostituire.
Prendersi cura dei malati, e nel pieno rispetto della volontà della persona, che le cure di ogni genere siano uguali per tutti/e e non ad appannaggio esclusivo di chi ha soldi o di alcune regioni e/o parti della terra; dei carcerati, perché chi sbaglia abbia la possibilità di correggersi e tornare ad essere parte attiva nella società civile mentre, se vige il disinteresse collettivo, la delinquenza resta.
Non ci sono ricette, regole o leggi ma, a partire dalle cose essenziali come il cibo, il vestiario, la casa, via, via, ci rendiamo conto che solo noi stessi/e possiamo mettere un limite al nostro agire sia nel personale (privato), sia nel collettivo (politico).
E molte volte il limite lo mettiamo per paura, per paura di amare…
Così, consapevoli e responsabili di quello che possiamo fare, Dio, che ci aspetti sempre un po’ più in là di dove vogliamo arrivare, non stancarTi di scuoterci e spronarci. Da Te fluisce la forza, l’energia per andare oltre: possiamo fare meglio, possiamo fare di più.
(Luciana Bonadio, CdB Viottoli, per la liturgia del 26 novembre 2017)

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