mercoledì, Dicembre 25, 2024

Il sessismo nella pubblicità

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

La pubblicità italiana è considerata tra le più sessiste al mondo. Crea, sostiene e promuove stereotipi e modelli discriminanti, relegando la donna a ruoli gregari, decorativi e ipersessualizzati. A sostenerlo è Massimo Guastini, presidente dell’Art Directors Club Italiano (Adci), coordinatore della recente indagine “Come la pubblicità racconta gli italiani” condotta insieme a Nielsen Italia e al Dipar­ti­mento di Filo­so­fia e Comu­ni­ca­zione dell’Università di Bolo­gna.  

Basato sull’analisi di quasi 20 mila campagne (tv, radio, affissione, stampa e banner web), lo studio ha esaminato il modo in cui uomini e donne sono raccontati nella pubblicità, identificando 12 tipologie narrative femminili e 9 maschili. Le tipologie di donna più utilizzate negli spot, sommate tra di loro, offrono un quadro piuttosto esplicativo. 

Nell’81,27 per cento dei casi si tratta infatti di “modelle” (ideale di bellezza), “grechine” (elemento decorativo che non dice niente), “disponibili” (in atteggiamenti di esplicita disponibilità o meglio possibile uso sessuale), “manichini” (corpo femminile o parti di esso), “ragazze interrotte” (annullate in quanto persona) e “preorgasmiche” (in espressione di piacere sessuale). Ovviamente, come prevedibile, la somma delle analoghe categorie per i maschi non arriva nemmeno al venti per cento. 

Così, mentre la donna viene narrata insignificante dal punto di vista della personalità e delle competenze – un oggetto e poco soggetto -, il profilo dell’uomo invece sbilancia verso illavoro. In più della metà dei casi negli spot pubblicitari il maschio è presentato come un professionista. Ma raramente come padre (solo nel 4,32 per cento dei casi)

Certo, a volte possiamo essere superficiali. E meno male. Sentirci sessualmente disponibili. E va bene. Desiderare di essere belle: la seduzione è un pilastro della femminilità. Però non attraversiamo la vita esclusivamente tra smanie e appetiti sessuali, in genere. Se si parla di emotività poi, non siamo solo isteriche, esagerate, adolescenziali. Davvero ci esaltiamo alla consegna di un paio di scarpe? O per una lavastoviglie sottocosto? Veramente ci eccitiamo se un anticalcare ridona lucentezza al nostro bagno? Può essere, ma probabilmente le nostre emozioni si modulano intensamente anche per altro.

È la ripetizione infinita dello stesso ritratto che stanca e discrimina. Che parla solo di un tipo di donna o solamente di alcuni aspetti possibili in una donna. Una versione unica, inespressiva, passiva, monotona, squallida. Limitante per la nostra affermazione sociale

Tra l’altro, in modo complementare, risulta danneggiata anche l’immagine degli uomini. Professionisti sì, ma con una vita che gravita intorno ad un corpo di donna (non una donna). Possibile che i maschi siano ispirati alla vita solo se stuzzicati eroticamente così come racconta la pubblicità? Che sentano il bisogno di esibire ossessivamente la loro indubbia virilità? Che manchino di coinvolgimento affettivo? Sempre assenti con i figli?  

Ma per la donna la pubblicità può essere ancora più subdola. Perché oltre all’ossessione per la bellezza, rivela modelli di genere inquietanti, legati a contenuti più ampi di cultura, identità, violenza e potere. La donna come oggetto. Spesso doppi sensi, giochi di parole. A volte pesanti eppure non censurati. Altri velati da combinazioni ironiche che legittimano immagini discriminatorie. Il sottinteso spesso è più pericoloso, come un certo ammiccamento sessuale collegato a sopraffazione, sottomissione, sfruttamento sessuale.  

Se la pubblicità penalizza le donne? Sì, lo fa. La pubblicità è comunicazione, diffonde linguaggi, valori. Contribuisce a costruire l’immaginario collettivo. Orienta opinioni, convinzioni, atteggiamenti. Ci dice come è meglio essere, come è ovvio che le donne e gli uomini si comportino. È piena di modelli appiattiti e passivi. Ci rende tolleranti agli stereotipi. Alle volte propone messaggi che puntano dritto alle nostre fragilità. Parlano ai nostri disagi. Ci dicono “è normale così, devi essere così”, rendendoci poco critiche e lucide su quello che possiamo fare, dobbiamo permettere. Soprattutto nelle età più giovani.

Non si tratta di essere femministe, non facciamo guerra agli uomini, ingabbiati anche loro in cliché sessisti. La dobbiamo fare contro una mentalità che può appartenere ad entrambi i generi.

Se la questione del sessismo nella pubblicità è ultimamente abbastanza discussa, la regolamentazione dei messaggi dal punto di vista legislativo in Italia è purtroppo vaga. Ma non sono gli strumenti legislativi e le autorità, indubbiamente necessari, a tutelarci del tutto. Se il mondo della pubblicità deve prendersi le proprie responsabilità e ai creativi va augurata una più fervida fantasia nella narrazione pubblicitaria dei due generi, a tutti serve fantasia per raccontare se stessi in modo diverso, dismettere certe ideologie, modi di pensare, diventare più critici e consapevoli. Creativi nel modo di essere maschio o femmina.

 

(Brunella Gasperini, Psicologa, D la Repubblica, gennaio 2015)

 

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